Dall’eredità dell’Etna il buono, l’esordiente, l’espansivo

Dall’eredità dell’Etna 

il buono, l’esordiente, l’espansivo

di Luciano Di Lello

 

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Se mi è rimasta un’immagine non cancellabile nel viaggio tra le contrade dell’Etna è stata in quella continua sequenza di vecchissime piante di Nerello, che salivano via via fino ai 1000 metri, quel brulichio di tronchi bassi e sinuosi, massicci e nodosi che si sollevavano verso lo spazio su strati di colate laviche millenarie e ne avevano man mano disfatto e sbriciolato le pietre, dissodato le masse, in un’immane fatica. Veniva da pensare a quanto ognuna di queste aziende avesse un debito enorme verso generazioni di anonimi viticoltori, che in un lavoro di secoli avevano creato un patrimonio di piante che non esiste in nessuna altra parte del mondo, per vastità, età, diversità dei siti, dei microclimi. E come il nostro più nuovo territorio del vino, il cui numero di produttori è cresciuto esponenzialmente in questi anni, nasca con l’eredità delle vigne più vecchie che possediamo. Vantaggio non da tutti, che può spiegare la rapida felicità di risultati, ma che fa anche capire come la nostra enologia sia oggi assai più colta e anche pronta, dinamica.

Esperienza dunque grande, ma anche strana, intima, con un centinaio di assaggi in cui si constatava la complessiva notevole correttezza di questi rossi, dal carattere nervoso, tannico ed assieme ricco in alcol, che si aprivano ad ampi, originali profumi e via via si allargavano e mutavano in frutto e mineralità, sempre più complessi ed articolati, lasciando al loro primo impatto un ricordo (ma solo come genere, categoria) di Pinot Nero o di Barbaresco, Barolo.

Nell’analisi di quello che più mi ha colpito parto da Passopisciaro, i cui vini conosco dalle prime vendemmie apparse nel nuovo millennio. Ma credo che in tutta questa sequenza la grandissima 2017 segni oggi una specie di spartiacque, a dimostrazione di come, anche con piante vecchissime, sia poi necessaria l’esperienza di ogni singola annata, la conoscenza capillare dei siti e delle piante per far esprimere a loro tutto il potenziale possibile. Nei fatti un Contrada Rampante così smagliante di profumi, pieno di sprazzi e acuti a sfiorare i primi accenni di goudron, non l’avevo mai sentito, tanto il vino era alto, luminoso, delicatissimo e assieme superbo. Accanto a lui un Contrada Guardiola di classe infinita, vino verso cui confesso un debole da sempre per saper coniugare in sé potenza e aericità, che si presenta con un incontaminato ventaglio olfattivo di rose appassite e bordature minerali. Bocca poi lunga, di estrema dolcezza e fascino, setosa e puntuta, con una sensazione di purezza tersa, serena, da splendido vino d’altura. Lo Sciaranuova poi era un’altra prova di eleganza suprema, quasi sensuale nella masticabilità, nella tessitura degli elementi compositivi. Ma anche il Passorosso ’17, che raccoglie in sé le varie contrade, supera ogni altra precedente vendemmia, tanto ricco di frutto, complesso ed ancora piccante di freschezza alla bocca.

Ma su questa annata c’è anche l’esordio di una nuova azienda da tenere accuratamente d’occhio. La Monteleone presenta un Etna Rosso di magnifica fattura, in cui colpisce appunto la precisione stilistica, la bellezza balsamica del naso, il rapporto frutto-legno che si articolerà ancora meglio nel tempo di bottiglia. E poi il cru Cuba, da una vigna sui 500 metri, che merita ancora più anni di affinamento, in cui l’apporto del legno nuovo apre orizzonti olfattivi inediti su una ricchezza estrattiva sontuosa, in cui iniziano ad emergere petali, balsami, bacche, inchiostri.

Diversi stilisticamente i rossi di Girolamo Russo, più ancestrali e maturi, più espansivi alla bocca e al naso, quasi un collegamento con quello che dovevano essere questi vini molti decenni or sono. Anche qui la 2017 è dirimente, a partire da ‘A Rina, e con due picchi assoluti nell’esplosività di sapori come il Contrada Feudo e Feudo di Mezzo.

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