I più grandi rossi emergenti di Bolgheri

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Ecco dunque, dopo il precedente articolo sul mio rapporto con i vini storici di Bolgheri, il risultato sui suoi migliori rossi emergenti.

E’ il frutto di assaggi iniziati alla fine del 2016, accurati, lenti, ripetuti, che hanno avuto anche il malessere di dover escludere quanto non mi convinceva del tutto.

Fa parte del mio lavoro (ed in fondo della vita di ognuno di noi) operare continuamente una selezione, scegliere quello che più ci persuade, come persone, ipotesi, mete delle nostre giornate e futuro. Ed anche così per il cibo ed appunto il vino, che ne rappresenta la parte spirituale.

Queste sei aziende sono quanto resta ed è brillato in questo tempo durato più di un anno (periodo non continuativo, come ho già detto, perché nel cuore di molti di questi mesi ho lavorato e finalmente concluso un romanzo, nel quale sono raccolti decenni di energie e l’intera creatività che mi è stata data).

I vini che racconto sono dunque l’espressione più bella, a mio avviso, più giovane e, se vogliamo, ancora in gestazione di Bolgheri.

Per lo sguardo di una persona anziana queste etichette appaiono come adolescenti, come nipoti pieni di qualità e di voglia di lanciarsi nel mondo, viaggiare, capire, studiare, crescere.

In questi rossi c’è molta bellezza e molto spazio. Nel senso che ogni vino ha in sé l’imponderabilità di non essere completamente compiuto. La prossima vendemmia potrà appunto occupare ulteriori spazi di gusto e di estetica. A seconda di quanto la natura offrirà, potranno non esserci necessariamente passi in avanti, magari saranno per una volta di lato o di ampiezza, ma daranno comunque un visione ed una visuale differente, via via più ampia, sostanziosa e piena però, di profumi e di sapori, nel tempo che continuamente avanza.

E’ quello che ho sempre percepito in questi decenni, in particolare nei rossi del nostro paese. Il loro non avere una storia particolarmente lunga alle spalle e che vanno dunque costruendo man mano la loro dimensione, giungendo ad una stabilità sempre più vasta, sapendo mettersi in discussione (per crescere e non omologarsi) in ogni successiva vendemmia.

Dico infine che assaggiare questi vini di Bolgheri è stata una fatica meravigliosa ed uno dei ricordi più belli che porto della mia intera vita di lavoro.

Può darsi che questo sito non abbia per un po’ nuovi articoli. E’ giusto che adesso segua l’esito del mio romanzo e di quella che sarà la sua avventura.

Ringrazio comunque anche tutto quello che c’è di anonimo e di impersonale, di non visto dai miei occhi in questo tempo del web, le decine di migliaia di contatti che mi risultano (dovrei forse, chi lo sa?, ringraziare l’esistenza di un dio-contatto), i fantomatici, ignoti lettori che hanno avuto la sorte di inoltrarsi in questi miei racconti.

Per tutti loro un caro “a presto”.

 

Donne Fittipaldi

Bolgheri Superiore ’13                93

Bolgheri Superiore ’12                93

Bolgheri Superiore ’11                92-93

Bolgheri Rosso ’13                       90-91

Bolgheri Rosso ’11                       90-91

 

 

 

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Azienda che ho scoperto anni or sono sulla vendemmia 2008. Si trattava di un Bolgheri Superiore che mi è parso maestoso e incantatorio, con in sé la precisione millimetrica che possiedono i grandi rossi assieme ad una travolgente, esplosiva godibilità e voluttà espressiva. Si aggiunga a questo un Bolgheri Rosso solo di poco diverso, appena meno complesso, appena meno conciato nei legni, più fresco, ma con una trascinante, concentrata gustosità, una dolcezza e ricchezza di frutto da primato, un’incantevole, ubertosa bellezza, che si è andata confermando poi in tutte le vendemmie successive (con il solo cruccio della 2012 che per tutta una serie di ragioni non sono riuscito a rintracciare e così ad assaggiare).

Giudicati ora, a distanza di qualche anno, e con un sostanzioso incameramento di continue grandi impressioni, questi vini, sia il Superiore che il Rosso, accomunati entrambi da una originale e fascinosa etichetta (ma forse troppo simile, il Superiore si distingue in sostanza per la sottile cornice dorata), mi sembrano un perentorio manifesto di cosa possa essere, al suo meglio, un uvaggio bordolese italiano e quanto di superbo, solenne e di una classicità felice e portentosa riesca ad esprimere questo lembo di costa dell’Alta Toscana.

L’azienda di 46 ettari è disposta lungo la via Bolgherese, con 9 ettari di superficie vitata. Le uve bordolesi sono state impiantate nel 2004 su terreni di medio impasto, ricchi di scheletro e a forte componente ferrosa. Il sistema di allevamento è a cordone speronato monolaterale, con circa 6.500 piante ad ettaro su portainnesto 420 A.

Le tre vendemmie consecutive ’11, ’12 e ’13 che ho valutato, seppure diverse (la prima sicuramente calda, ma nel complesso importante e felice, la seconda assai siccitosa, caldissima e con un vento di scirocco che ha disidratato molte piante, la terza invece assai più equilibrata e che darà luogo a vini più dinamici e longevi) ha dato comunque qui tre Bolgheri Superiore (taglio di un 30% rispettivamente di Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot + 10% di Petit Verdot) dalla mastodontica opulenza e ricchezza, con inoltre una magnifica dolcezza e gustosità espressiva. Vini grassi, impetuosi, molto ricchi in grado alcolico, dal superbo estratto, che, se vogliamo rapportarli ad una espressione tra i vini storici di Bolgheri, si dirigono verso il solco dell’Ornellaia, mantenendo ovviamente la peculiarità di proprie vigne, tutte particolari e diverse.

A questi 3 vini, segnati, ripeto, da una particolarissima opulenza, ho dato punteggi molto vicini, ad ulteriore dimostrazione di quanto un semplice numero racconti poco o nulla dei vini e delle loro differenze. In questo senso la 2013 è l’annata che esprime il maggiore margine di migliorabilità e di futura crescita. Parliamo di un poderoso rosso oggi assai crudo, con un manto olfattivo di enorme suggestione, ma anche avviluppato, trattenuto, che deve ancora digerire il tostato e distendere il boisé. Però (come sempre accade nella categoria di rossi così opulenti) anche questa sua cruda nervosità è completamente avvolta di polpe e creme in formazione, di mirtilli maturi assieme all’accenno graffiante e profondo di goudron, liquirizie, inchiostri. Vino virulento e sostanzioso, straordinariamente folto, dalla fisicità prorompente e propulsiva, eppure ricolmo di preziosità e suggestioni, su cui gli anni a venire doneranno ulteriori dimensioni e profondità.

La 2012 è poi il Superiore che mi ha più convinto tra tutti i Bolgheri di pari annata. Abbiamo detto come questa estate sia stata anche a su questo lembo di costa toscana di una certa sofferenza per le piante, con frutti che rischiavano di seccare, più che maturare. Molti vini di questa vendemmia mi sono apparsi così un po’ seduti e molli.

Ma il Donne Fittipaldi ’12 è invece un vero prodigio, dal colore impenetrabile, dal naso nitido e delizioso di ribes maturi irrorati da inchiostri e tartufi. Straordinaria poi la sua pienezza e dolcezza alla bocca, con la sensazione di bere un rosso assoluto e completo, dal nitore impeccabile, in cui gli aromi ed il peso tannico appaiono perfettamente calibrati, ad ulteriore indizio di una mano tecnica di grandissimo livello. Ed in tale senso onore ad un giovane enologo come Emiliano Falsini, che lavora in azienda sin dalle sue prime vigne e che dimostra come la migliore perizia tecnica sia quella di non lasciarla trasparire affatto nel vino, ma di far emergere solo la bellezza e la purezza netta del frutto. Che qui è appunto in uno stato di grazia meraviglioso, che manterrà sicuramente per qualche anno.

Le sensazioni dell’assaggio mi danno anche impressioni di freschezza e gioventù invidiabili. Però un’annata di questo tipo, con quel particolare andamento climatico, mi suggeriscono comunque di non conservare il vino ad oltranza, ma di goderlo con infinito piacere in questo suo spazio di espressività felicissima.

Il Superiore 2011 è infine delle tre annate quello che più definisce il suo picco di opulenza e concentrazione, dalla impenetrabilità del colore, al naso intensamente folto e tartufato, in cui appare contemporaneamente anche un accenno di surmaturo, che, a paragone con le altre due annate, lo rende appena più statico.

La ricchezza del suo ventaglio olfattivo è comunque straordinaria, forse appena sovrabbondante e barocca nel momento dell’apertura della bottiglia, ma che man mano ha trovato nel calice un suo sontuoso equilibrio, visto che poi ho continuato ad assaggiarlo per i due giorni successivi, così come scendeva man mano il suo livello ed aumentava l’ossigenazione.

In tutto questo tempo non c’è stato alcun cedimento, il vino ha mantenuto una preziosità e bellezza olfattiva ragguardevole, solenne e matura, ma dando anche l’impressione di essere in un punto limite di concentrata e appena sovraccarica ricchezza.

 

Casa di Terra

Casa di Terra ’13                       93

Casa di Terra ’12                       92

Maronea ’13                              91-92

Maronea ’12                              91-92

Maronea ’11                              92

Maronea ’10                              91-92

Poggio Querciolo ’12                 89-90

Poggio Querciolo ’11                 90

 

 

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E’ un’azienda interessantissima questa, con il segno di vini dalla particolare cremosità e morbidezza, assai sapidi, generosi, aperti e molto gustosi al palato. Caratteristica che riteniamo nasca proprio dai suoli delle sue vigne, cui si aggiunge una notevole bravura tecnica ad estrarre ed esprimere in grande nitore il buono delle uve che qui nascono, le sue creme e la dolce saporosità del loro frutto.

L’azienda dispone oggi di quattro nuclei di vigneti nel comprensorio di Bolgheri, con impianti che sono iniziati a nascere nel 2002 (per una fittezza di 5.600 piante ad ettaro allevate a cordone speronato monolaterale), continuando ad espandersi via via fino al 2013. Notevolissimo così il potenziale su vigne che devono ancora maturare perfettamente. E seguendo questi rossi da diversi anni, abbiamo registrato ogni volta una sostanziosa costanza qualitativa nelle vendemmie.

La nascita infine di un’etichetta da Cabernet Franc in purezza, che nella 2013 è stata uno dei migliori assaggi del nostro intero lavoro, ha mostrato la possibilità e la volontà di questa azienda a cercare ulteriori spazi interpretativi e creativi attraverso questo vitigno, che nella sua complessa grandezza è riuscito ad innervare ed approfondire una materia tanto soave, fascinosa e morbida, fino a toccare un superiore livello di espressione qualitativa, in una sorta di quadratura del cerchio tra la consueta gustosità, piacevolezza ed il rigore, la tenuta, la tensione, la razza aristocratica dei rossi assoluti.

Il Casa di Terra, cui appunto è stato dato il nome aziendale, è soltanto alla sua seconda uscita, dopo una già buona 2012, ma ci appare come una delle più importanti future etichette del comprensorio bolgherese. Di questo Cabernet Franc ’13 colpisce la classe, la nettezza smagliante ai profumi, la loro freschezza di frutti di bosco, l’intensità, la vastità del grande rosso che si presenta con un manto dai colori profondi e luminosi.

Vino oggi giovanissimo, che crescerà ulteriormente in anni di bottiglia, e che già presenta un diapason aromatico di eleganza e bellezza completa.

L’impatto è dunque di notevole attrazione, un trionfo di dolcezza, di succosità, di apertura, una bontà che è nelle caratteristiche dei rossi di questa azienda, che sono appunto dichiarati, sereni, carichi di profumi appetitosi. Ma in questo Casa di Terra si avverte come ogni impressione possa ulteriormente tendersi, dilatarsi e svolgersi con una profondità, una fittezza, una vigoria ed un’aristocraticità più alta.

Certamente oggi il vino appare crudo, con un tragitto assai lungo davanti, ma è anche attraversato e pervaso da una polpa fittissima e dolce, tanto da lasciarsi approcciare con vero piacere e gioia. Rosso insomma con una grande anima, folto, nobile, ora al suo primo formarsi di inchiostri e goudron che complessizzano la sericità preziosa dei suoi frutti di bosco.

Il Maronea Bolgheri Superiore è poi l’uvaggio bordolese aziendale da Cabernet Sauvignon (in prevalenza) e Franc. Rimane qui la notevole, fascinosa godibilità di un vino dall’impatto sereno, aperto, come è nel timbro e nel segno aziendale. E che potrebbe ingenerare l’equivoco di sembrare anche facile, semplice.

Nella realtà però in queste quattro vendemmie consecutive degustate il Maronea non ha mai manifestato un minimo di cedimento o smagliatura. E ci è sempre parso un gran rosso prestante, intenso, succoso e vasto ai profumi, carico di freschezza, che fa il suo esordio al naso con un leggero tocco ematico, poi vira verso le rose, i balsami, le polpe, le creme, i frutti di bosco e man mano, nel tempo di bottiglia, si evolve verso il rabarbaro, il goudron, il tartufo, la cioccolata.

Vino di estremo piacere al palato, generoso, positivo, illuminato, potente e gentile, dai tannini levigati e setosi, esemplare dimostrazione dell’aspetto soave e del frutto deliziosamente cremoso di Bolgheri.

Segnaliamo infine il Poggio Querciolo, a prevalenza di Syrah + un 15% di Cabernet Sauvignon, da impianti di vigne nate tra il 2005 ed il 2007. Piante dunque ancora assai giovani e che con il raggiungimento di una progressiva maturità esprimeranno una materia più profonda. Ma l’assaggio della 2011 e 2012 dona comunque un vino impetuoso, concentrato (non particolarmente complicato nella ’12, che rimane comunque un’annata non certamente energica e longeva), materico, grasso, ridondante di frutto. Denso e pieno di ricchezza e gustosità infine ai sapori.

 

Fornacelle

Foglio 38 ’13                           92-93

Foglio 38 ’12                           93

Foglio 38 ’11                           92-93

Guarda Boschi ’13                 91

Guarda Boschi ’12                 90

Guarda Boschi ’11                  90-91

Merlot Erminia ’15                 89     

Merlot Erminia ’11                90

 

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Il Foglio 38 è, a mio avviso, uno dei migliori vini rossi di Bolgheri e della Toscana. Ho ancora il ricordo dell’assaggio della 2004, sua prima vendemmia, avvenuto nei saloni dell’Hilton di Roma. Eravamo probabilmente nell’autunno del 2007 e il Consorzio di Bolgheri presentava lì i suoi produttori.

Di tutte quelle serate ho una memoria un po’ nostalgica (per il tempo che è intanto trascorso), ma anche un po’ perplessa per quella sequela confusa di bottiglie ed etichette, il braccio teso verso affollati banchi di sommelier, il bicchiere che era oramai diventato un disordinato mix di odori dei vini precedenti, nell’impossibilità di poter avvinare ogni volta. Qualcosa che nei fatti era molto distante da un assaggio ponderato e serio. Anche se mi rendo conto che quegli eventi avevano comunque una loro ragione d’essere ed era poi difficile poter fare sempre in altro modo.

Eppure il Foglio 38 è la riprova che, anche in quei casi e nel disordine di quelle modalità, il fuoriclasse alla fine emerge. E, quando si possiede una marcia in più, lo stacco diventa evidente e perentorio.

Questo Foglio 38 (anche il nome poi indovinato, ad individuare quella particolare parcella di terreno, e che ti si incastra bene e positivamente nella memoria, come qualcosa di preciso ed accurato) mi era apparso subito come un vino elegantissimo, netto, vibrante, con profumi di incontaminata verticalità e suggestione, uno dei primissimi Cabernet Franc inoltre a venire presentato in purezza.

Rosso dunque di grande personalità, che da lì ho poi continuato ad assaggiare in tutte le successive annate, seguendo i continui progressi di questa piccola azienda, con il giovane proprietario Stefano Billi e la moglie Silvia a lavorare sui circa 8 ettari di vigneto via via impiantati.

Avventura che era iniziata di fatto nel 1998 con i primi filari di Merlot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc. Ed una fittezza che andava da 6.000 ad 8.000 piante ad ettaro, allevate, a seconda dei vitigni, a guyot oppure a cordone speronato, con la consulenza di Fabrizio Moltard.

Il Foglio 38 ha poi sempre mantenuto nelle sue varie vendemmie una grande riconoscibilità. E’ un vino che nasce appunto così, in quel particolare sito di Bolgheri, completamente diverso da tutte le altre partite aziendali. Che viene vinificato in barrique aperte, utilizzando solo i lieviti delle stesse uve, con follature a mano e macerazioni sulle bucce di circa 20 giorni. Elevato poi per 18 mesi nelle stesse barrique nuove. Ed affinato per un anno in bottiglia infine, prima di essere messo in commercio.

Nonostante un suo grado alcolico anche importante e generoso, è un vino lungo, con i cromosomi di un’anima alta, nervosa ed uno scrigno di profumi raffinatissimi e preziosi. Delle tre ultime vendemmie, che prendo in considerazione, può sembrare paradossale come il punteggio più alto lo abbia dato alla 2012, che è stata sicuramente, per il suo andamento climatico, come ho già detto, l’annata più calda e complicata per le piante.

Però ribadisco ancora una volta che nell’assaggio si coglie l’attimo di un vino. E se in questi giorni io devo assaggiare o consigliare (anche e soprattutto a chi non lo ha mai sentito) il Foglio 38, allora dico di cominciare proprio dalla 2012, che esprime la sua versione più aperta, ampia, in questo caso anche sontuosa e folta.

Parliamo appunto di un rosso di grande classe, raffinatissimo, dai toni alti, acuti. Ma la calura estiva lo ha qui anche leggermente dilatato e maturato. E’ un vino ancora giovanissimo all’impatto, molto elegante, preciso, splendente, radioso, ma che già si apre alle rose appassite, ai toni sensuali di cassis e vaniglie, su cui man mano affiorano balsami, mente e via via poi si apre un panorama sempre misurato e complesso di inchiostri e goudron.

Alla bocca i tannini appaiono perfettamente rasati, dolci, flessuosi, masticabilissimi e intrisi di creme. Nello stesso tempo però è un vino palpitante, pieno di echi raffinati, colto, che rimane con un’anima acuta. Ed in questa annata 2012 è più propenso a mostrarla in una magnificenza ampia, vasta, cosa che in altre vendemmie avrebbe probabilmente concesso solo dopo molti altri più anni di bottiglia.

Questo Foglio 38 è così oggi prossimo ad essere tanto ricco di espressività, tanto al suo apice di bellezza da meritare il punteggio più alto, proprio perché la sua godibilità si apre e si adagia, completa, serena, splendente.

Il 2013 invece è sicuramente più indietro e trattenuto. Vino che appare ancora serrato, chiuso, ma in un certo senso più in linea con la versione consueta del Foglio 38, teso e tagliente cioè come una spada, che ha bisogno dei suoi tempi per concedersi. Con il consiglio dunque di saperlo conservare per anni, quando il suo punteggio potrebbe ulteriormente salire.

Se si è curiosi però di assaggiarlo ora, dategli una lunga ossigenazione, anche in un decanter. Lasciate che cominci a schiudere la sua ricchezza di aromi, le note elegantissime di ribes e le liquirizie, il catrame, che oggi tende a prevalere sul frutto, perché parliamo di un gran vino appunto crudo, nervoso, pieno di spigoli, scalpitante, che si deve ancora svolgere e sviluppare completamente, manifestando comunque sin d’ora l’impronta della sua aristocratica nobiltà, la fermezza e la stabilità del suo mondo.

Il Guarda Boschi è poi il miglior uvaggio bordolese di Fornacelle e la conferma di come in molti produttori del territorio la selezione da monovitigno finisca per essere superiore all’uvaggio (tema su cui ho appunto fatto le mie considerazioni, concludendo il precedente articolo su Bolgheri).

Occorre dire che si avverte un’ovvia aria di famiglia tra i due vini, nel profilo, nei lineamenti. Il Guarda Boschi è però leggermente più magro e sottile, ha appena meno massa e questo dà al vino un approccio anticipato rispetto ai tempi assai più lunghi del Foglio 38. E, contemporaneamente, ritengo proprio che questa leggera minor densità gli fa esprimere un profilo assai più chiaroscurato e severo.

La 2013 ci è sembrata una sua ottima versione, con un naso molto inchiostrato e tartufato. Prevalgono cioè suggestivi echi di spezie, balsami e goudron, più che larghezze e creme di frutto. Rosso dunque austero, tendineo, nervoso, ma di notevole bellezza estetica, in un quadro di profumi dalla particolare raffinatezza espressiva.

La sua bocca mostra tutti i suoi spigoli, ma è vibrante, forse un filo magra, ma di notevole, fresca giovinezza e fascino, che saprà ancora crescere nel futuro.

Il Merlot Erminia è poi l’altro rosso che ci intriga, prodotto finora soltanto in tre vendemmie, la 2009, la 2011 ed infine la 2015 (che uscirà in commercio nel corso di questo anno).

Se può avere un suo limite è nella complessità (ma quanti sono nel mondo i Merlot complessi?), elemento questo che non è appunto nelle corde del vitigno. E nel pacchetto di offerta di Fornacelle questo vino rappresenta il rosso importante, in cui prevale appunto la polpa, la larghezza, un certo sorriso, una voluttuosità sincera, a controbilanciare il rigore anche austero degli altri due vini.

Allora diciamo subito che l’Erminia ’15 è oggi davvero crudo e giovanissimo. Promette molto bene, ma consigliamo di lasciarlo ancora in bottiglia per 1-2 anni.

Il 2011 mostra invece la sua completa espressività, il colore profondo, il naso varietale e dolce, succoso di frutto con accenni di ribes e catrami. Non profondissimo, ma soave, con grazia, un Merlot non rabbioso, ma gentile, molto piacevole sul piano dei volumi, della palatalità, della dolcezza. E con un notevole nitore tecnico.

 

Giovanni Chiappini

Guado de’ Gemoli ’13                      91

Guado de’ Gemoli ’12                   89- 90

Guado de’ Gemoli ’11                   90-91

Lienà Cabernet Franc ’13             91-92

Lienà Cabernet Franc ’12            90-91

Lienà Cabernet Franc ’11             91

Lienà Cabernet Sauvignon ’13      92

Lienà Cabernet Sauvignon ’12      89-90

Lienà Cabernet Sauvignon ’11      91

Lienà Petit Verdot ’13                    91-92

Lienà Petit Verdot ’12                    89-90

Lienà Petit Verdot ’11                    91         

Lienà Merlot ’13                            89-90

Lienà Merlot ’12                            89

 

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Azienda con una buona collocazione dei vigneti sopra la Strada Bolgherese, ad un altitudine già interessante, su cui dal 1996 sono stati impiantate le classiche varietà bordolesi ad una fittezza di 6.500 ceppi per ettaro. Nel sistema d’allevamento si è utilizzato sia il guyot che il cordone speronato, con potature corte per una raccolta finale di uve intorno agli 800 grammi per pianta. La conduzione è divenuta completamente biologica dal 2010.

Il segno di questi vini è in una generosità intensissima, in colori nerastri, molto concentrati e profumi densi, grassi, alcolici, a riprova di un importante e mirato lavoro di vigna. Seguiamo l’azienda dalla vendemmia 2005. E nelle ultime annate abbiamo registrato un’impennata magnifica con la 2013, dove questi vini appaiono sempre mastodontici, ma nello stesso tempo carichi di bellezza, di energia, di sapori, camminando su di un filo in cui opulenza e nerbo si conciliano, per un possibile tragitto di longevità davvero assai lungo davanti.

Inoltre questi ultimi assaggi 2013 ho avuto modo di protrarli per 2, 3, fino a 4 giorni, con il livello del vino che via via scendeva nella bottiglia, aumentando così il contatto con l’ossigeno. Ed ho potuto constatare in essi una stabilità straordinaria, con le migliori impressioni incredibilmente tra il secondo ed il terzo giorno. Potrei così suggerire, se volete assaggiare ora questi giovanissimi 2013, che non sarebbe affatto sbagliato porli per ore in un decanter, al fine di gustarli in una condizione di maggiore apertura espressiva.

Vorrei appunto iniziare con la linea Lienà, che è quella che indica la superselezione dei monovitigno. Quattro vini, appunto il Merlot, il Cabernet Sauvignon, il Cabernet Franc ed il Petit Verdot, in poche migliaia di esemplari.

Nessuna azienda del bolgherese presenta una linea così completa. E, credo, a tale livello di qualità, nessun altra al mondo. Quindi è doveroso un plauso a Giovanni Chiappini e alla sua famiglia, oltre che per la bellezza di questi vini, per la possibilità che dà al pubblico degli appassionati di capire cosa significhino questi vitigni e questi vini a Bolgheri e nel particolare delle sue vigne.

Devo dire che assaggiarli ripetutamente in queste settimane è stato per me infinitamente istruttivo ed importante. Mi ha fatto molto pensare, riflettere. E credo appunto che il bello del vino, la sua magia sia contenuta in questa capacità ad allargare i nostri orizzonti, a farci percepire e immaginare qualcosa sul nostro privato a volte, ma anche sul nostro lavoro, sui nostri rapporti. Il grande vino in qualche modo illumina le nostre giornate e noi dobbiamo appunto saperne fare buon uso.

Inizio dunque dal Petit Verdot, che di fatto viene considerato una sorta di quarta gamba dell’uvaggio, che tra l’altro non tutti, nemmeno a Bolgheri, hanno impiantato. Vitigno un po’ tardivo, un po’ selvaggio nel suo bagaglio espressivo, più di forza che di eleganza, che comunque in queste vigne cresce e matura assai bene, addolcendo le asperità e smussando in spessore la durezza dei suoi tannini.

Ho anche imparato a capire in questi assaggi come i monovitigno, forse proprio perché meno polifonici, maturano più lentamente o, diciamo meglio, i loro ingredienti espressivi, proprio perché minori nel numero e non accompagnati e fusi ad altri, rimangono duri, serrati e nascosti più a lungo (oltretutto la 2013 possiede i cromosomi completi per una longevità assai importante).

Tanto per essere chiari, il miglior Lienà Petit Verdot che ho assaggiato in questi mesi è stato un 2005, ritrovato nella mia solita cantina. Era un grande rosso, ancora impenetrabile al colore, espressivo, graffiante al naso, aggressivo e di grande, sonora polpa alla bocca, dove si lasciava andare, masticabilissimo ed intenso.

Però devo a questo punto anche aggiungere che nei vini di Bolgheri io mi pongo ogni volta verso l’assoluto completo. Non c’è nulla da fare, mi piacciono troppo e l’aspettativa così è ogni volta altissima. E allora se vogliamo ragionare in questa ottica, dico che questo Petit Verdot ’05 era certo un grande vino, ma non totale e assoluto. Nel senso che gli mancava qualcosa per essere tale. Degli elementi, qualcosa nella vastità degli aromi, dei movimenti, degli spazi, della grazia.

Ho avuto insomma la riprova che questo vitigno, e quindi il vino che ne deriva, più che da solo, vada benissimo nel taglio bordolese. In una certa dose il Petit Verdot può dare al mix finale una componente di consistenza e di rabbiosità, di virilità, di massa e di profondità che non mi dispiace affatto, che ritengo anzi indispensabile. Però, da solo, ripeto, manifesta ed esprime soltanto taluni aspetti del grande vino.

Ma è un’esperienza comunque da fare. Aiuta a capire. E, se avete un Lienà Petit Verdot, sappiate che è un vino in grado di maturare molto bene e per molti anni in bottiglia. Però è un vino comunque da scoprire e tentare. E se è giovane, provatelo, ma lasciandolo respirare con tanto anticipo.

Arrivo così al Merlot, che appare il più debole dei quattro. E, detto che anche qui la 2013 mi è parsa la migliore tra le vendemmie assaggiate, impeccabile oltre tutto sul piano tecnico, trovo che il suo limite sia in questa semplicità di fondo del vitigno. Ripeto, il vino è molto ben fatto, di ottima concentrazione, ad indizio di un lavoro di vigna encomiabile, ma, per spiccare il volo, per possedere un altro corredo espressivo, il Merlot ha bisogno di terreni altri e particolarissimi.

Sfrondate così le ali, arriviamo ai due Cabernet, che sono gli assi portanti dell’uvaggio. E dunque, assaggiati ogni volta in contemporanea, questi due rossi erano splendidi, estremamente ricchi, suggestivi, vasti, potenti, con una loro solenne sontuosità. Il Cabernet Franc è più acuto, più aromatico, con dei tocchi ai profumi di bellezza e raffinatezza davvero rari. Ha anche bisogno di più tempo per esprimersi.

Il Cabernet Sauvignon invece dà più volumi, più sensazione di grassezza, di peso e di passo solenne. Se vogliamo tentare di esemplificarli in una immagine, il primo ha più la voce del violino, il secondo più il timbro del pianoforte. Entrambi comunque vini ancora assai aggressivi, spigolosi, che si devono comporre ed hanno bisogno di anni di bottiglia, ma che esprimono sicuramente una definizione da grande vino.

Però, anche qui, (e torno al mio assoluto) mi appaiono ad un passo dall’essere totali e completi, nel senso che sembrano davvero nati per stare assieme, per crescere e completarsi l’uno con l’altro, fondendosi. Ed il meglio (nel vino io devo provare, tentare, è nella mia natura) lo hanno appunto dato, quando, a fine degustazione, ho provato a immaginare un loro mix.

Da soli insomma si aveva la sensazione che ad ognuno dei due mancasse il pizzico di qualcosa per essere immenso. Assieme però lo diventavano davvero (e, per dirla tutta, anche una leggera aggiunta di Petit Verdot non guastava per nulla, anzi rendeva il tutto ancora più orchestrale). Erano rossi mastodontici e sfaccettati, ponderosi, un po’ materici, ma di una solennità e di un andamento fantastico. Ed era meraviglioso vedere come, nell’unirli in modo attento, meditato, il loro bagaglio aromatico cresceva, si moltiplicava e si complessizzava, i loro spigoli si andavano ad incastrare perfettamente. Le acidità allora si smussavano, si fondevano, davano più volume. Si sommavano così gli strati, tra polpe di frutto ed inchiostri, per un vino gigantesco e perentorio che avrebbe, in Italia e non solo, assai pochi rivali.

E’ stata un’esperienza bellissima, che mi sono sentito in dovere di raccontare. Tra l’altro (ed è questa la magia ed il mistero) il vino diventava anche più aperto, dichiarato e nello stesso tempo profondo. Cambiava misura, cresceva. E contemporaneamente era più godibile.

Proprio questo mi ha fatto considerare come l’uvaggio, con la grande polifonia di componenti e di spessori che così si raggiunge, renda il vino sicuramente longevo per decenni, ma anche, nel suo maggiore equilibrio, godibile e decifrabile prima. E con un impatto sicuramente più vasto e completo per l’assaggiatore.

Anche nei due Cabernet l’annata che ho preferito è stata la 2013. La trovo tecnicamente la più felice e quella destinata a dare vini più longevi. Mentre invece la 2012 è stata un po’ l’anello debole tra le ultime vendemmie. L’estate torrida ha qui dato uve che tendono ad una leggera surmaturazione, che si avverte nei vini, molto alcolici, ma anche un po’ molli.

Veniamo ora al Guado de’ Gemoli, etichetta che esprime l’uvaggio bordolese dell’azienda e che conferma un’altra volta come assai spesso nell’area di Bolgheri si tenda a privilegiare il monovitigno.

Sin dal colore infatti questo vino dimostra minore profondità rispetto ai vari Lienà. Il taglio poi è Cabernet Sauvignon 80% e Merlot 20%. E questo, ad essere sincero, faccio fatica a capirlo (dico perché non si utilizzi anche il Cabernet Franc ed il Petit Verdot), se non nel fatto che forse tutto dipende da quanto si possiede nelle vigne ed il poco di questi ultimi due vitigni si vada a concentrare tutto nei Lienà.

Ad ogni modo il Guado de’ Gemoli, in particolare ancora una volta il 2013, anche così è un vino molto interessante e piacevole, che si apre agli inchiostri ed alla liquirizia su un caldo sfondo ematico. Rosso dal carattere poderoso ed alcolico, disposto a concedersi, con tannini rasati, rigoglioso alla bocca, dove dà il meglio di sé nel suo impatto carnoso, masticabilissimo e dolce.

La vicinanza dei punteggi con i Lienà comunque non confonda, in quanto questi ultimi sono oggi molto lontani dal loro picco ed hanno ancora bisogno di tantissimo vetro, mentre il Guado de’ Gemoli è più pronto.

Però (e mi rivolgo a Giovanni Chiappini, che non conosco direttamente) l’impressione di tutti questi miei assaggi è che lei abbia in mano alcune delle più belle basi di vino che io abbia assaggiato nel corso degli ultimi anni. Però queste sono appunto basi, ognuna con un qualche suo piccolo, microscopico oppure grande limite. Perché non farne, assiemandole in modo armonico, uno dei più grandi, perentori rossi del nostro paese?

 

I Luoghi

Campo al Fico ’13                                 90-91

Campo al Fico ’12                                 91

Campo al Fico ’11                                 91-92

Podere Ritorti ’13                                  89

Podere Ritorti ’12                                 88

Podere Ritorti ’11                                 89-90

 

 

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Stefano Granata è un giovane ingegnere elettronico. E lavora già da tempo in questo settore, quando nel 1999 decide di cambiare totalmente e radicalmente vita. Assieme alla moglie Paola torna a Bolgheri, con il progetto, che non può avere ripensamenti, di diventare viticoltore, facendo così nascere una vigna, seguendo con naturalità tutto il suo necessario processo di crescita, senza alcun compromesso, con passione e precisione, per arrivare al miglior vino possibile.

Appunto nel 2002 inizia sul proprio podere di 5 ettari la posa a dimora dei primi impianti di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, più pochi filari di Merlot e Syrah. La fittezza è di 7.900 piante ad ettaro allevate a cordone singolo e doppio. La consulenza enologica è di Gioia Cresti.

Vengono banditi in vigna sin dall’inizio diserbanti e prodotti chimici di sintesi, limitate le concimazioni, valorizzando ogni accorgimento naturale perché le piante crescano sane ed in armonia con il territorio.

In vendemmia sono tenute separate le varietà e le singole parcelle. Nelle fermentazioni non si utilizzano lieviti selezionati e le macerazioni sulle bucce durano circa 20 giorni, in piccole vasche di acciaio con quotidiane follature e rimontaggi. La fermentazione malolattica avviene poi spontaneamente sia nell’inox che in legno. Ed i vini a questo punto, tenuti sempre separati, maturano nelle barrique dai 14 ai 20 mesi.

In base alla qualità ed alla evoluzione di tutte le singole micro-vinificazioni, si valuta infine l’assemblaggio nelle due etichette aziendali.

E’ stato sulla vendemmia 2006 che ho iniziato a conoscere i due vini così nati. Parlo del Campo al Fico Bolgheri Superiore e del Podere Ritorti Bolgheri Rosso. In essi mi hanno colpito diverse cose. A partire dall’eleganza, da un senso di precisione che si avvertiva, la meticolosità poi dei dettagli, delle particolarità olfattive, cui non era estranea una sostanziosa carica di legno, oltre quell’impressione di cultura e di rigore che si coglieva. Infine la parallela vicinanza, per caratteristiche e movenze, tra le due etichette.

Certamente il Campo al Fico aveva più concentrazione, si avviava ad una vita più lunga, era appena più graffiante e virile. Però il Podere Ritorti era un Bolgheri Rosso davvero super, ricchissimo di profumi dolci e vanigliati, sicuramente più femmineo, snello, setoso, come una elegante, dolce ragazza, ma appena algida, piena di controllo, molto sulle sue, che si annuncia a sguardi, a occhiate improvvise.

Eravamo di fatto alla prima-seconda vendemmia de I Luoghi (nome aziendale che tra l’altro trovo bellissimo e di evocative suggestioni). In questi casi, con le piante così giovani, il frutto si dovrebbe concedere ed aprire prima. Per quanto era però rigoroso ed austero tutto l’insieme, con questa loro precisione controllata, i vini emanavano certo una grande classe, ma dicevano al tempo stesso di non essere ancora pronti per essere assaggiati. Se posso fare un riferimento territoriale, ma solo come idea, sembravano un po’ nel solco dei vini de Le Macchiole, ovviamente differenti anche nei colori, meno concentrati e profondi, però con una certa anima dura e trattenuta, una composizione tannini-legno-acidità che solo il tempo poteva far sviluppare e sciogliere.

Ho continuato poi a seguire l’azienda nelle annate successive, la 2007, 2009, 2010. Mi capitava di fare una serie di considerazioni su questi rossi e sulla loro dominante austera, spigolosa, severa.

“Esprimessero un po’ più di polpa, di grasso, un’unghia di frutto in più, sarebbero davvero spaziali” mi trovavo a pensare. Perché sono cosciente di quanto un certo livello di opulenza nel grande vino non mi dispiaccia affatto. E non ne faccio un dramma, anzi lo proclamo serenamente. C’è poi da valutare, ovviamente, modo e misura, disposizione, armonia e gusto, bellezza. Ma un grande vino, a mio avviso, non può non avere ricchezza di frutto e così dilatazione, sostanza, spessore. Non sono certo gli unici elementi per un grandissimo risultato, però, credo, ci debbano anche sicuramente essere, nel loro contenuto, nel loro insieme, nella loro avvertibilità.

Comunque il fascino ed il piacere che questi rossi de I Luoghi emanavano, mi portava poi a consumare, gustarmi ed esaurire i due campioni ad etichetta che mi arrivavano ogni anno. Nei fatti in questi mesi, pure cercando nella mia cantina, non ho trovato bottiglie storiche da poter valutare, annate lontane che mi sarebbero state invece assai utili in questo lavoro.

L’averle esaurite però è l’ennesima verifica di quanto ritengo autentiche, sofferte e meditate queste due etichette. Mi appaiono davvero come opere, che appunto rispecchiano in pieno il carattere, l’indole, le idee ed il senso estetico del loro autore.

Più volte nel degustarli, nel portare il calice al naso mi ha colpito questa loro eleganza ritrosa, questa ricchezza di terziario più che di frutto, di vaniglie tostate, di mente, di inchiostri e tutta una gamma di spezie e sensazioni minerali.

Mi è anche capitato di pensare come entrambi questi vini, a loro modo e nascendo poi da vitigni diversissimi e in un territorio inoltre abissalmente differente e lontano, in qualche misura baroleggiassero, così pieni di nuances e suggestioni, così nervosi, così tendinei, anche eterei. Raffinati, ma in qualche modo anche laconici, con l’impressione che lasciano di possedere molto di più di quanto non vogliano ora darti.

Assaggiandoli, mi è venuto da pensare come il vino certamente fa dialogare gli uomini, in una cena, un incontro. Ma è anche un confrontarsi tra l’autore (con il suo territorio) e, dall’altra parte poi, chi assaggia, che evidentemente ha anche lui il suo mondo e il suo retroterra.

Pur con tutta l’eticità, il distacco, se vogliamo, anche il mestiere tecnico con cui un degustatore onesto valuta un vino, è inevitabile che dentro di noi ci sia un particolare e privato modo di intendere il grande rosso. Abbiamo inevitabilmente un nostro gusto, un nostro modello intimo, un immaginario, che si è formato negli studi, nelle letture, nei viaggi, nei rapporti, negli assaggi. E tutto questo si riflette nel nostro modo di valutare un vino. E’ qualcosa che dalla percezione di un odore, di un sapore fa scoccare dentro di noi una scintilla, una scoperta, un senso di piacere.

Sono quindi perfettamente cosciente del relativismo di ogni nostro parere. Ogni nostro giudizio ha evidentemente dei limiti, è segnato da un’individualità, da un gusto e da una storia. Ed io, ripeto, non nascondo come nei grandi vini mi piaccia anche una certa opulenza.

L’assaggio per questo lavoro è così avvenuto sulle ultime 3 vendemmie poste in commercio, con vini che sono, come è ovvio, ancora sicuramente crudi, acerbi. E l’età delle piante, che è via via cresciuta, ne accentua inoltre la longevità, allungando e allontanando così ulteriormente i tempi di fruizione e di godibilità.

Non è dunque un caso che le impressioni migliori e più articolate me le abbia offerte la vendemmia 2011, appunto più lontana nel tempo, con maggiore affinamento nel vetro, ma che, mi sembra, anche di qualità ed esito superiore rispetto alle altre due.

La sensazione è appunto che in questa annata le uve de I Luoghi abbiano avuto la possibilità di maturare in modo più compiuto, solido e completo.

Il Campo al Fico ’11 (taglio 80% Cabernet Sauvignon, 20% Cabernet Franc) è più profondo già al colore, il naso annuncia ricche nuances tartufate, prime sciabolate di goudron (anche in questi vini è estremamente utile un’apertura anticipata della bottiglia), che si vanno riempiendo via via di una bella polpa di frutti neri pieni di velluto e dolcezza, in cui si coniuga concentrazione e notevole classe. Bocca poi sontuosa, densa, catramata e balsamica.

Nella sua accennata opulenza è il Campo al Fico che più si avvicina al mio modo di intendere il grande rosso. Lo vedo assai più disponibile a concedersi (sono anche vecchio e non ho più tra le mani troppo altro tempo per attendere). Possiede quell’unghia grassa che ammanta e schiude la serrata combinazione tannini-legno-acidità, di cui parlavo. Mi appare più solare, più rotondo e meno geometrico, con meno spigoli.

Anche il Podere Ritorti ’11 (medesimo l’uvaggio, ma con piccole aggiunte del Merlot e Syrah presenti in vigna) mi sembra il più bello, riuscito e risolto dei tre. Senza aver perso nulla della sua smagliante eleganza, appare di una rotonda sontuosità ai profumi, femmineo e sorridente, con note di cassis, vaniglia tostata, caramello ed un primo sfondo di spezie dolci. Composizione assai bella e goudroneggiante alla bocca, tenuta da un filo acido e tannico che lo manterrà vivo ancora a lungo. Per un rosso che ha già percorso un suo cammino in bottiglia e parecchio ancora ne ha davanti.

La 2012 è frutto di una vendemmia più difficile, più complicata da gestire in vigna. Portare troppo in là la raccolta rischiava di bruciare gli aromi ed il tenore acido delle uve, anticiparla di comprometterne invece la maturità fenolica.

In questo caso il Podere Ritorti è un po’ più piccolo e sottile. Molto intrigante come al solito ai profumi, raffinati, pieni di liquirizia e inchiostri, meno pieno alla bocca, dove appare anche in un suo apice.

Il Campo al Fico ’12 è più svettante e profondo (frutto anche di una selezione drastica), che merita ancora una lunga evoluzione nel bicchiere, dove via via si apre dall’iniziale nota lignea e vanigliata ai catrami mentolati, alle spezie, con un lungo finale di opulenza inchiostrata.

La 2013 è certamente la più cruda ed acerba. E qui il Campo al Fico paga appunto questo essere assai distante da una soglia di godibilità, in particolare alla bocca, dove la durezza acida consiglia di lasciar evolvere il vino per altri anni nel vetro. I profumi però lanciano già importanti bagliori preziosi, eterei e mentolati, per un naso in piena costruzione, che potrà dare sorprese nel tempo.

Il Podere Ritorti ’13, proprio perché meno concentrato, è più gustoso e approcciabile. Sentito anche dopo 24 e 48 ore, ha dimostrato una integrità ed una forza notevole, dando il suo meglio alla distanza, in progressione, smussando le sue durezze acide e le agritudini di gioventù.

 

Batzella

Tàm ’12                      91-92

Tàm ’11                      93

Tam ’10                      91-92   

Peàn ’13                     90-91

Peàn ’12                     89-90

Peàn ’11                     90

Peàn ’10                     89

Vox Loci Syrah ’10     89

Vox Loci Syrah ‘12     89-90

 

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Il Tàm 2011 (65% Cabernet Sauvignon, 35% Cabernet Franc e circa 24 mesi di barrique) è stato uno degli assaggi più goduti ed appaganti di questo intero lavoro. Un grandissimo rosso, completo, assoluto, perentorio già in questa sua prima veste, perché parliamo di un vino oggi soltanto nella iniziale fase del suo lungo tragitto. Impenetrabile dunque al colore, con uno straordinario naso, netto, fitto, terso, scintillante, in cui si affacciano ribes e mirtilli intarsiati di legni preziosi e mentolati, poi spezie, incensi, lampi di goudron. Con la mente a richiedere a quel punto un assaggio immediato, tanto attrattivo, dolce e in nitida, totale armonia appariva il suo ventaglio aromatico.

Portare così questo rosso alle labbra e ricevere le medesime, emozionanti suggestioni è stato un piacere totale. Bocca davvero perfetta, euritmica, carica di bellezza e preziosità, in cui si assapora un frutto di incredibile dolcezza e complessità, che lascia contemporaneamente avvertire la solidità e l’eleganza, il manto prezioso e la gustosità profonda, la succosità ed il carattere, anche la tenebrosità dell’insieme, la sua parte dark di inchiostri e liquirizie, rese luminose dalla grassezza elegantissima del frutto. E tenute tutte queste sensazioni insieme da un’estrema e solida nobiltà di tannini.

Assaggio imperativo dunque, che ci piacerebbe ripetere negli anni, quando virerà verso il tartufo, le cioccolate, fuse in fondali di goudron dall’impressionante chiaroscuro.

Un grande punto di arrivo (e, auguriamo, di ripartenza) per Franco Batzella e sua moglie Khanh Nguyen, proprietari di questa piccola azienda bolgherese di circa 8 ettari, con vigne impiantate nel 2000, soprattutto a Cabernet Sauvignon, poi Cabernet Franc e Syrah, per quanto riguarda le varietà a bacca rossa. La fittezza è di 7.000 ceppi per ettaro, il sistema di allevamento è il cordone speronato unilaterale.

La collaborazione enologica dal 2003 (loro prima vendemmia) di Attilio Pagli. Ma non credo sia estranea alla bellezza di questo vino la cultura internazionale dei proprietari, i loro lunghi decenni trascorsi all’estero, a Washington in particolare, e così i viaggi, la scoperta e l’abitudine ai grandi vini del mondo. Con la scelta infine di Bolgheri per tentarne uno proprio.

Ma, a dirla tutta, anche più di uno, perché, se il Tam è davvero un grande Bolgheri Superiore, il Peàn è un Bolgheri Rosso (dunque un secondo vino) di bellezza ed intensità tanto particolare, da lasciarci sempre molto colpiti.

La 2013, che è stato in pratica l’ultimo nostro assaggio (ed appena uscito in commercio), ci ha poi stranamente sorpreso e molto in positivo, perché ha fatto intravedere quasi un cambio di marcia, una sorta di maturazione stilistica nell’esprimere vini grandi ed intensi, ma che si possono approcciare al loro meglio anche prima.

A questo punto è necessario però un passo indietro, riavvolgere il nastro, per raccontare come entrambi questi rossi abbiano avuto sin dal loro primo apparire la caratteristica di essere estremamente concentrati, densi, ricchi di frutto e nello stesso tempo molto forti nella struttura tannica e nervosa, decisi poi nel dosaggio del legno, necessitando così di tempi lunghissimi in bottiglia.

Lo stesso proprietario si fa carico inoltre di un loro considerevole affinamento, che rende di fatto queste etichette le ultimissime ad uscire in commercio tra quelle del territorio.

Il Tàm, nella fattispecie, è ora in vendita con il 2010. Ed il favoloso 2011 lo sarà tra breve.

Il Peàn (taglio di Cabernet Sauvignon e Franc, maturato per 12 mesi nelle barrique) dovrebbe dunque essere il suo fratello minore, appena meno concentrato nel colore (che resta comunque assai bello, intenso e profondo). Eppure ha sempre manifestato forza ed intensità da vendere, così come una notevole propensione alla longevità, virile poi nel carattere e di ottima fattura tecnica.

Ho avuto modo in questi mesi di assaggiarlo dal 2009 al 2012, riportandone ogni volta impressioni assai positive. Dovevo quindi essere preparato a questa 2013. Eppure la sua bellezza è riuscita lo stesso a sorprendermi.

Probabilmente me lo aspettavo più laconico, più chiuso, data la gioventù, invece i profumi si sono innalzati subito carichi di succosità, intarsiati di frutti neri, succulenti ed attrattivi. Questo vino è come scattato, bello e smagliante, tanto ricco di elementi positivi e così in equilibrio da possedere a nostro avviso una longevità considerevole, riuscendo ad esprimersi già oggi però, senza veli o sigilli che lo imbriglino.

Insomma un secondo rosso mirabile, che consigliamo a tutti di provare, che anticipa le movenze ed il passo del fratello maggiore, con profumi da acquolina in bocca, intrisi di frutti neri di bosco e primi accenni inchiostrati di goudron. La bocca poi è sontuosa con tannini vivi, pieni e dolci, che conciliano rigorosità e crema, profondità e dolcezza, volume e saporosità. La stessa bottiglia, assaggiata poi nell’arco di tre giorni, non ha mostrato mai una piega o un cedimento gusto-olfattivo, tanto da rimanere nella mia memoria (assieme al Donne Fittipaldi) come miglior secondo vino di tutto questo intero lavoro.

Del Tàm riportiamo anche i punteggi del 2010 e del 2012, il primo appunto in commercio ed il secondo che lo sarà nel prossimo anno. Medesimo il voto, ma ovviamente parliamo di vini abbastanza differenti.

Come era anche logico aspettarsi, la 2012, pur essendo ancora cruda, rigorosa (in pieno e completo stile aziendale), è quella più vicina a schiudersi ed ad ampliarsi, ad accennare un sorriso e ad emanare una gioia gustativa. Il grande caldo dell’estate gli ha dato anche un accenno di sontuosità. E’ insomma un bellissimo vino (anche se non raggiunge la profondità del 2011), che avrà un picco di bontà tra 3-4 anni, perché stiamo parlando di un rosso solido e armonico, molto intrigante nella sua composizione aromatica di frutti di bosco, inchiostri e mente balsamiche, che nel mio assaggio ha dato il meglio 15-20 ore dopo la sua apertura.

Il 2010 è oggi un Tàm assai più indietro, più acuto e nervoso rispetto al ’12, molto raffinato e crudo, avviluppato, che merita sicuramente diversi altri anni di bottiglia per elaborare il suo ventaglio aromatico. E’ adesso un gran vino, lungo e ancora stretto, una sorta di scrigno racchiuso. Consigliamo così di non avere fretta, saperlo conservare ed attendere, affinché esprima tutta l’ampiezza di un potenziale originalissimo.

Ultima notazione infine sul Syrah di questa azienda, qui presente su un ettaro di vigneto. Dall’utilizzo in purezza di questo vitigno è nata un’etichetta chiamata Bliss nei suoi esordi ed ora Vox Loci Syrah.

Il nostro recente assaggio è stato sulla vendemmia 2010 (attualmente in commercio) e sulla 2012, ancora in affinamento.

Tra le due versioni preferisco di un’incollatura la seconda, che oltre tutto possiede ulteriori margini di crescita. In questo caso il Syrah, vitigno che dà il suo meglio nelle estati assai calde, proprio perché lì matura perfettamente i suoi acini, esprime un vino di maggiore ricchezza e armonia tra aromi e polpa. C’è ancora da smussare una certa aggressività tannica, ma parliamo comunque di un rosso, molto buono, ampio e solido, palpitante, in bell’equilibrio compositivo e con positive prospettive di crescita.

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