Il Chianti Classico, Riecine e una riconciliazione

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Riecine di Riecine 2012       93-94

Riecine di Riecine 2011       92-93

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Chianti Classico 2011         87-88

In quella che è stata la mia storia il Chianti Classico ha ricoperto il ruolo di territorio più ricco e sorprendente per tutti gli anni ’80 e ’90. Quando ogni nuovo viaggio mi confermava come lì nulla rimanesse statico, con continui nuovi vini ed etichette ad apparire, ad incuriosirmi. E tutti gli assaggi diventavano pure avventure dello spirito, in un fuoco d’artificio di ipotesi e sapori, dentro quello che è stato per vent’anni il nostro più grande laboratorio a cielo aperto di sperimentazioni gustative e dunque estetiche.

Sono cresciuto e mi sono formato in quei luoghi, dove lavoravano le migliori immaginazioni e personalità del nostro vino (anche se molto spesso lontane e distanti nelle ipotesi e nelle idee), riunite però in un rettangolo in fondo di non troppi chilometri, a ridisegnare vigne e metodologie. Mettendo in discussione tutto, vitigni, uvaggi, portainnesti, sistemi di allevamento, fittezze, tecniche di vinificazione, legni. Sfidandosi certamente tra di loro, ma molto più spesso sfidando l’assoluto e l’intentato (anche quando si voleva essere il più possibile vicini alla tradizione). Compiendo comunque in un paio di decenni la distanza che andava dalla preistoria del vino al viaggio sulla luna. E raccogliendo un patrimonio di informazioni, di cui hanno poi beneficiato tutti gli altri territori della Toscana, oltre che dell’intera Penisola.

Il mio primo viaggio in Chianti Classico era stato nella primavera del 1974, solo qualche settimana dopo quello a Montalcino. Nella mente un corredo di articoli di Veronelli e un’infinita curiosità di capire, di assaggiare.

Ma era tutto primordiale allora. Ogni passaggio doveva ancora avvenire. E a tramortirmi nella sequela delle sue colline c’era soltanto la bellezza abbacinante del paesaggio.

Spesso fermavo la macchina per fissare meglio gli scorci che apparivano oltre un crinale, all’improvviso. Non avrei parole da poter utilizzare oggi. Ognuna è stata così logorata e mortificata, abusata. Ma c’era davvero qualcosa di stupefacente dentro quelle linee che vedevo per la prima volta, una radiosità di colori e di quinte che si susseguivano sempre più sfumate, uno splendore che mi tramortiva, con la sua natura raggiante, boscosa, benigna, e accanto, ma appena con un suo tocco leggero, posato man mano nei secoli e ogni volta con gusto, con discrezione, quasi a non voler apparire, l’esistenza dell’uomo, la sua mano civile, giusta, il senso di un’idea. Un casale, una minichiesa sulla cresta della collina con il colore di quelle stesse pietre, qualcosa dentro cui abitare o rimanere a pregare, fissando attorno quegli spazi supremi.

Non avevo allora nemmeno padronanza delle strade che si inerpicavano nei borghi. Quella prima volta pronunciai il nome di un paese che mi pareva uno scioglilingua musicale. “Scusi, la strada per arrivare a Gàiole …?” domandai in un incrocio. E la ragazza mi guardò, scoppiando quasi a ridere. “A Gaiòle” disse dopo.

Viaggio dopo viaggio scoprivo Radda, Panzano, Làmole, Castellina, i loro luoghi. A rivederli nella memoria, sembrano passati 2 secoli per quanto si sono modificate le cose e moltiplicati poi i produttori, nati e cresciuti vini che allora non si potevano nemmeno immaginare.

Andavo in quella primavera del 1974 alla caccia di piccoli produttori dai vini giovani e gustosi, ma ancora molto semplici, spesso rustici. Ricordo il Chianti di La Bricola, di Montoro e Selvole, il Le Pici. Sconfinavo poi fino all’Impruneta per la superba Riserva 1970 di La Querce.

Quello che si sarebbe cominciato ad elaborare da lì a poco era il tema del Sangiovese, se tentarlo da solo e al meglio, in un’area dove storicamente era prevalsa l’idea di un mix di vitigni. Abbassando drasticamente le rese, reimpiantando a maggiori fittezze, rinnovando il parco legni.

Sarebbero iniziate così le avventure di personaggi e aziende oggi famose. Ma, se vogliamo porre una data e segnare uno spartiacque nella futura storia di questo territorio, dobbiamo partire inevitabilmente da un vino, che è il Tignanello 1971.

La sua uscita in commercio è da collocarsi tra la fine del 1974 e l’inizio del 1975. Per lo meno io, che ero una sorta di appassionato follemente seriale ed anche compulsivo, ne lessi in quel tempo sul poco di stampa che c’era allora e comprai le mie bottiglie. In contemporanea al Sassicaia 1968, distribuito nei suoi primi anni proprio da Antinori. Ricordo che anche il prezzo (intorno alle 5.000 lire) era simile.

Tralascio ora il tema del Sassicaia, perché voglio riprenderlo più in là, in un lavoro interamente dedicato ai vini di Bolgheri. Ma l’impatto che offriva il Tignanello ’71 nel panorama del tempo era fortissimo. Un vino chiantigiano, ma assolutamente non paragonabile a nessun altro nel territorio. C’era una tale modernità, una tale diversità di concezione che lasciava sbalorditi, c’erano anni-luce di differenza rispetto agli altri vini degli anni ’70.

Io ne ero entusiasta, un rosso totalmente nuovo, dal frutto pieno, giovane e delizioso, che apriva di colpo ipotesi, spazi inediti, morbidezze, che faceva venire idee, lampi. E superava così di 10.000 spanne i Chianti Classico Riserva di quegli anni, sempre un po’ maderizzati, asfittici, vecchi, secchini, scarichi, sfiniti, in una parola, vini tristi.

Nel mio gusto in formazione il Tignanello ’71 (ed il Sassicaia ’68, come poi racconterò) ha avuto un’influenza enorme. Un po’ come quando, sedicenne, ero obbligato all’estenuante lettura ed analisi, pagina dopo pagina, rigo dopo rigo, dei Promessi Sposi. E all’improvviso scoprivo i romanzi di Stendhal, Dostojevskij, poi Proust, Kafka, Mann, Joyce.

Un salto nel futuro e nell’essere vivi. Quel vino portava finalmente la nostra enologia dentro il XX secolo, dava una sterzata, una ventata e una linfa nuova. Non era certo l’unica possibilità (i vini sono grandi nel loro prodigioso ventaglio di ulteriori spazi e linee), ma offriva finalmente un varco, un cammino, una concezione. Ed era poi buonissimo.

Io ne feci incetta, nei limiti delle mie possibilità di giovane insegnante. Ne compravo almeno 2-3 al mese, quando prendevo lo stipendio. Acquistavo soprattutto in un’enoteca di Campo de’ Fiori, andando ad esaurire a poco a poco le loro scorte. Ricordo ancora il proprietario, che ormai mi riconosceva, domandarmi una delle ultime volte, un po’ in forte sospetto e a malomuso “Ahò, ma che te le rivendi?”.

Il grande vino moderno doveva dunque avere un frutto vivo, ricco, nitido e per questo andava ripensato in vigna, riuscendo ad ottenere grappoli più maturi, concentrati e densi, dal bel grado zuccherino. Ed assai diverso doveva essere poi il controllo dei mosti in cantina ed infine del tempo di legno, della loro qualità, dimensione e freschezza.

Da lì cambieranno un po’ tutte le idee e i movimenti, le dinamiche tecniche del nostro vino rosso. Ma è bene sapere come quel Tignanello ’71 fosse molto avanti nei tempi, troppo nei confronti del gusto del consumatore nazionale ed in fondo anche del mercato estero, che in quegli anni si aspettava tutt’altro da un vino italiano.

Quel 1971 fece così molta fatica ad essere completamente venduto (nonostante gli sforzi volenterosi di qualche timido insegnante) e verrà poi riproposto solo dalla vendemmia 1974 e su una tiratura di bottiglie (per quei primi anni successivi) decisamente più bassa.

Ma c’era qualcosa d’altro in quel Tignanello a far discutere, a sparigliare, ad accendere le menti, le discussioni, i pareri, gli scontri. La presenza cioè al suo interno di una percentuale consistente (25-30%) di Cabernet Sauvignon. Questo cambiava la filosofia, l’idea, la strategia, cambiava certamente anche il gusto del vino. In un territorio che si andava lanciando proprio in quegli anni con i suoi primi nuovi pionieri, che andavano valutando il personale progetto di come fare un grande rosso in Chianti Classico.

Per questo il Tignanello ha svolto anche il ruolo di spartiacque. Bisognava decidere già dalla nuova vigna, se seguire il suo solco e andare magari ancora oltre nel percorso o separarsene invece completamente. E siccome nel nostro paese viviamo tutto in modo viscerale ed anche partigiano, spesso ho sentito raccontare questo momento come uno schierarsi etico, filosofico, un vero e proprio “da che parte stare”.

Ma oltre a capire il clima del tempo occorre anche avere davanti il panorama del nostro vino in quei suoi primordi e quali punti di riferimento ci fossero per chi puntava ad un rosso importante, complesso, longevo da monovitigno autoctono, che in Chianti Classico era appunto il Sangiovese.

Nonostante le distanze territoriali, ritengo che per tutti un riferimento di forte aurea e storia fossero il Barolo ed il Barbaresco, da un vitigno appunto diverso e particolare come il Nebbiolo. Più vicino e con meno storia c’era poi l’esempio del Brunello, che partiva invece proprio dallo stesso vitigno chiantigiano ed andava allora allargando anno dopo anno il numero dei suoi produttori, iniziando una sua fortuna anche commerciale che lasciava molto pensare.

Quando poi ho iniziato a scrivere di vino un primo panorama era già delineato. Ed io che ero vissuto fino a tutti quegli anni come ai margini del suo mondo (un dilettante esterno, appassionato delle sue dinamiche, che cercava di mettersi alla pari, controllando tutte le novità in enoteca, aggiornandosi con la nuova stampa e le nuove guide che uscivano), avevo da lì finalmente una chiave di ingresso per quell’universo che mi affascinava e di cui ero curiosissimo.

Ricordo come qualcosa di esaustivo la gioia del mio primo articolo che usciva su Repubblica nella Pasqua del 1987. Poi non ci si fa più caso, tutto rientra in una consuetudine, una ovvia routine di mestiere. Ma quella prima volta è come se ti segnasse, ti esplodesse dentro, immunizzandoti da ogni futuro dolore. E venivo fuori inoltre, assieme a mia moglie, da molti mesi di gravi vicissitudini e preoccupazioni, con nostra figlia nata nell’anno precedente fortemente prematura (ma, tanto per dare subito il finale, lei è oggi una giovane bellissima, con i suoi giusti tormenti di illustratrice grafica ed artista, www.donnamymistake.com , se vi va per caso di dare un’occhiata. E qualche frammento di sue vecchie opere le ho pure utilizzate nel mio sito).

La gioia che mi capitava così di essere pubblicato confesso di averla vissuta in quei giorni anche come un premio, un contrappasso del destino e della sorte che ti concede respiro finalmente, dopo averti messo tanto alla prova, averti portato davanti ad un precipizio che ti fa perdere tutto.

Adesso dunque potevo conoscere i produttori, parlare con loro e così con gli enologi, ascoltare, imparare, fare confronti, approfondire. Come degustatore, come assaggiatore sono nato di fatto allora. Mi sono formato in quegli anni di test continui, comparati, in cui incameravo il Sangiovese di Castenuovo Berardenga oppure di Gaiole, di San Casciano o di Greve, poi di Vagliagli. E da solo o assieme al Canaiolo oppure al Cabernet Sauvignon, al Merlot.

Non ne ho mai fatto una questione etica, sui vitigni, né di schieramento. Credo occorra del buon senso. Sempre. Io mi chiedevo, con tutta la sincerità e l’onestà possibile, se quel vino fosse buono o no. E poi quanto, fino a che punto buono. Se tanto, tantissimo o fosse solo ad un livello medio. Se dentro quel bicchiere ci fosse qualcosa di straordinario o soltanto il risultato di una buona tecnica. Se insomma il rosso che avevo nel calice potesse crescere ancora, in prossimi passaggi, in correzioni, in future vendemmie, se ci fossero ulteriori margini per diventare davvero emozionante oppure no.

Era una appassionante e pura ricerca estetica ed è la cosa bellissima di questo lavoro, che ricorderò e mi rimarrà dentro per sempre. La scrittura poi è successiva. Non nego che amo molto la mia lingua, mi piace scrivere e mi pongo dei problemi, proprio di composizione, su come far arrivare al lettore quanto ho percepito e capito nell’assaggio. Ma tutto questo viene dopo, è la resa in parole di quanto si è avvertito.

L’irripetibilità e l’emozione, quando c’è, quando l’assaggio è meritevole, arriva prima ed è la molla del tutto, che rende unico e magnifico il senso di questo mestiere. Si comprende cosa significa sentire qualcosa che non esisteva, che va oltre la nostra vita precedente, che si proietta nel futuro e gli dà presenza. La vera parte nobile, spirituale e misteriosa del vino.

Ma, per tornare a quel tempo, il metro ed il riferimento, la concezione del buono che tutti noi avevamo allora si fondava inevitabilmente su quanto eravamo riusciti ad assaggiare e conoscere in quegli anni. Nel caso del Sangiovese, su quanto di fatto si era riusciti finora a creare, perché tutti quanti noi, produttori, enologi, assaggiatori eravamo in un territorio inedito, dai confini possibili, sicuramente superabili, ma al momento completamente sconosciuti.

Per me dunque non aveva importanza quali vitigni ci fossero dentro (le migliori etichette del resto portavano la dicitura di “vino da tavola”, libere cioè da ogni vincolo), mi interessava solo se fossero buoni. E certamente mi chiedevo a quel punto anche perché. Ci ragionavo sopra. Se fosse dovuto al sito, ai vitigni, alla bravura dell’uomo …

Ho avuto la ventura di stringere subito una sincera amicizia con due personaggi che di fatto esprimevano due visioni contrapposte. Sergio Manetti a Monte Vertine era il punto di riferimento per un grande rosso da vitigni chiantigiani classici. E poi Alceo Di Napoli, uno straordinario, autentico principe vignaiolo, che nel suo Castello di Rampolla a Panzano coltivava Sangiovese e Cabernet Sauvignon. Progettava anzi sin dai giorni della nostra conoscenza una nuova vigna a grande fittezza su cui impiantare solo quel vitigno bordolese.

Ricordo pochi anni dopo, una sera dei primi di aprile del ’91. Eravamo in pieno Vinitaly, invitati a cena da un produttore veneto. Avevo Giacomo Tachis di fronte a me, quando arrivò la notizia della morte di Alceo. La fronte di Tachis, che era suo amico fraterno, si aggrottò, incisa come da una coltellata. Poi lui si alzò, scomparve.

Io rimasi intontito, mentre mi raccontavano che Alceo si era sentito male proprio su quella sua vigna tanto desiderata, era caduto giù quando si stavano ormai impiantando le ultime viti.

Pochi giorni fa ho riassaggiato il Vigna d’Alceo ’96, prima vendemmia, prodotta poi dai figli che ne hanno meritoriamente continuato l’opera. Una bottiglia scovata all’improvviso, per caso (ma esiste il caso?) nella mia cantina, mentre cercavo altro.

Un rosso di 20 anni, nato da piante di fatto bambine. Ed era un vino straordinario, dal colore impenetrabile, dal naso succoso e profondo, ricchissimo di complessità, con tannini setosi e nobili ed un gran frutto masticabilissimo e solenne. Un rosso meraviglioso che, a dir poco, rende onore alla terra e agli uomini che l’hanno generato.

Sbagliato allora impiantare vitigni bordolesi in Chianti Classico? Anche in quei primi anni mi sembrava folle solo pensarlo.

Ma certo il grande tema del territorio era logicamente il Sangiovese. Cosa poteva essere, cosa poteva diventare, fin dove poteva arrivare questo vitigno?

Ho vissuto 15 anni sulle sue tematiche e sui suoi assaggi, legandomi a grandi amicizie con produttori ai loro primi passi importanti, assieme a cui condividevo impressioni, perplessità, esaltazioni, dubbi e la gioia poi, la sorpresa su una grande annata ancora nei legni che mostrava orizzonti molto più ampi, articolati, complessi. panzano-in-chianti_fototeca-unione-viticoltori-dii-panzano-2

Félsina, Fontodi, Ama, Montefili, Capannelle, Isole e Olena, Fonterutoli, San Giusto a Rentennano, poi La Massa sono stati i luoghi di tutto questo tempo. E sono un pezzo della mia vita che mi resta indelebile nella memoria, perché quei viaggi erano una gioia ed una crescita, legati, come sempre nel vino, anche al piacere dei racconti, al sapore di cibi magnifici che poi li accompagnavano a pranzo, all’essere in pace con se stessi e con gli altri attorno, alla civiltà della parola, dello stare a tavola e così ricordare, confidarsi, aprirsi, guardare anche nel presente con la sua attualità, dentro la sua storia senza sentirsi soli, immaginare il mondo, osservare le utopie e le vicissitudini, anche la sua politica, che per noi in quegli anni non era una cosa losca.

Si erano andati man mano sviluppando così in quei due decenni tutta una serie di filoni di ricerca, che approdavano poi, dopo vendemmie sperimentali, ad etichette di vini definiti.

Un percorso, forse piccolo sul piano delle quantità, ma assai importante su quello della scuola e dell’acquisizione di dati per giungere ad un rosso superbo (dall’impostazione della vigna alle tecniche di cantina), era quello che aveva fatto nascere vini in purezza da vitigni bordolesi (valga per tutti l’esempio dell’Apparita). L’altro più grosso fiume era dato, come già detto, dalle nuove vigne di Sangiovese. Che approdavano poi ad etichette da questo vitigno in purezza, rare volte con la dicitura di Chianti Classico, assai più spesso imbottigliate come “vino da tavola”.

Esisteva poi la terza possibilità, assai tentata e diffusa per la verità, di continuare cioè il filone del Tignanello, mischiando il Sangiovese ai vitigni bordolesi.

Alla lunga, come più verificavo, mentre tali etichette crescevano nel numero, questa terza ipotesi iniziò a non convincermi più, a stancarmi.

Era il Chianti Classico un territorio a cui mi sentivo legatissimo e non potevo tacere, fare il pesce in barile dicendo che era tutto buono e splendido. Quei rossi, tecnicamente anche assai ben fatti, mi apparivano sempre più come degli ibridi, avevano perso il sapore, le caratteristiche del Sangiovese ed accennavano appena al profilo dei bordolesi (che essendo vitigni aromatici “marcavano”, anche in percentuali minoritarie), ma soltanto, è questo il punto, come delle loro pallide, diluite brutte copie. Non erano insomma più una cosa e non erano nemmeno l’altra. Comunque non mi sembravano vini immortali e quel territorio poteva, a mio avviso, esprimere molto di più.

Ne scrissi per anni, come editorialista esterno nella rubrica “Contrappunto”, che curavo sul Gambero Rosso. Coniai quella definizione di Gran Meticcio, che non mi fece guadagnare grandi simpatie tra i produttori e gli enologi chiantigiani. Però credo che in quei vini ci fosse una carenza di personalità e di riconoscibilità. Mi sembravano, esteticamente, delle scimmiottature. Non era quello il futuro che mi auguravo per il Chianti Classico, non era quella la strada per arrivare a rossi assoluti, ma solo un modo per correggere, in una certa parte e fino ad un certo punto, un vino da Sangiovese con dei limiti.

Dopo anni di tentativi e di studi sviluppati da tante aziende, mi sembrava chiaro che rimanessero in piedi le altre due ipotesi per un territorio che mirava ai vini top del mondo. Proporre cioè in taluni casi un uvaggio bordolese in purezza (o da suo monovitigno ovviamente), sapendo di misurarsi a questo punto con le migliaia di altre etichette similari prodotte nel mondo. E con la coscienza così di dover esprimere la grandezza e la vocazione a vini estremi di questo territorio anche su vitigni non storici.

Oppure (e principalmente) produrre un Sangiovese in purezza, là (e se) le vigne e le annate davano un risultato eccelso, avendo in questo caso un rosso di fortissima identità ed originalità territoriale, non ripetibile altrove, perché questo vitigno restituisce profondamente quel particolare terreno, sito, microclima. E l’appassionato, il collezionista, il cittadino del mondo, che vuole conoscere il sapore ed il profumo del Chianti Classico al massimo del suo livello e della sua storicità, solo da un vino del genere può ricevere soddisfazione e risposte.

Ovviamente nell’arco di quel ventennio seguivo anche altri territori e appunto contemporaneamente viaggiavo molto per Montalcino, stesso il vitigno, diverso tutto il suo multiforme areale, poggiato su quattro versanti e con altitudini che andavano dai 200 metri ai 500. Aggiungiamo pure che in quei primi anni erano ancora sostanzialmente pochi i produttori di Brunello e scarso l’apporto di enologi e consulenti.

Per me, che assaggiavo in contemporanea i Sangiovese del Chianti Classico ed i Brunello di Montalcino, appariva chiaro come i primi fossero molto più colti, più elaborati e consapevoli, migliori nella fattura, inappuntabili nella pulizia tecnica, nella raffinatezza di forme. Il Chianti Classico era in sostanza molto più avanti.

Il Brunello inoltre pagava lo scotto di un Disciplinare a mio avviso punitivo, con l’obbligo di una sosta nei legni lunga ben 4 anni (ridotti in quel ventennio di convegni e battaglie a 36 mesi, poi 30 mesi, infine 24 mesi).

Però, nonostante i limiti, la rusticità complessiva in molti produttori e la sensazione di vini già parecchio maturi (proprio per la lunga sosta nelle botti), veniva fuori un altro dato (per lo meno da tutte quelle vigne intorno ai 300 metri che ne rappresentavano la stragrande maggioranza), che cioè le uve di Brunello possedevano in sostanza tutt’altri parametri, come un’altra misura e densità. Il vino aveva un superiore estratto, una massa più grassa, un corredo più ampio e concentrato. Un rosso insomma completamente diverso. Nonostante poi fosse più basso in acidità (in particolare nel versante di Sant’Angelo e Castelnuovo), quel Sangiovese dimostrava negli anni di botte una sua particolare e straordinaria forza espansiva, riusciva cioè a fondersi nei legni (quanto più questi erano buoni e nuovi), ad intridersi, a cremizzarsi, ad ampliarsi, a dilatarsi, fino a sensazioni di straordinaria complessità, dolcezza, originalità.

Insomma in concreto la materia prima era splendida. Poi c’erano molte altre cose da rivedere sui passaggi di cantina. L’uso e la qualità del legno si poteva discutere. Si partiva in sostanza da una cultura al grande vino che a Montalcino era stata minima, con dunque ancora molto da studiare, tentare e migliorare. Le basi delle uve però erano grandiose. Ed è chiaro che, vendemmia dopo vendemmia, durante tutti gli anni ’90 i risultati crescevano esponenzialmente. L’arrivo poi anche di nuove culture e proprietari da fuori Montalcino stava dando un suo apporto sostanzioso, per non dire fondamentale.

Contemporaneamente in Chianti Classico però, come più si avvicinava la fine del vecchio millennio, cominciavo ad avvertire sensazioni meno entusiasmanti, come se lì si andasse invece perdendo velocità. Insomma le recenti vendemmie che si aggiungevano e che verificavo mi sembrava che non portassero più novità sostanziali. Si era ormai fermata anche la corsa di nuove aziende che comparivano con etichette importanti. Questo però non era così rilevante e significativo. E’ che i vini già noti, che seguivo da sempre, se prima crescevano instancabilmente ad ogni nuova annata, arricchendosi in tasselli di profumi, eleganze, complessità, spessore, ora mi apparivano invece come fermi o in qualche modo al passo. Insomma, a mio avviso, i migliori vini da Sangiovese si stavano ripetendo nei risultati, non andavano più oltre, come se avessero in quegli anni toccato un loro acme ed il picco di cime non più superabili. Avevo in parole povere l’impressione che la forza propulsiva e creativa in Chianti Classico si andasse via via esaurendo.

E’ una cosa che continuò a confermarsi per alcuni anni. Ed inoltre mi sembrava che ci fosse anche un problema di focalizzazione su quel Sangiovese, la cui grandezza e bellezza (a parte le aree più calde, ad esempio, di Castelnuovo Berardenga) era nell’altezza dei profumi, nell’eleganza e nell’acutezza dei tratti. A differenza di Montalcino, che esprimeva un Sangiovese grasso, poderoso, alcolico, largo, anche ruvido, che il tempo di legno poi educava, svelleva dei suoi spigoli, quello del Chianti Classico, nascendo in un microclima più freddo e quasi sempre da vigne più alte, era decisamente più duro e nervoso, con un insieme di forme più snelle, lucide, svettanti. Un patrimonio sicuramente profondo, ma al tempo stesso delicato come un cristallo e dunque anche più difficile da plasmare, che andava probabilmente più assecondato nelle sue caratteristiche di levità, di fragranza, di mineralità, piuttosto che essere invece superconciato e concentrato nei legni.

La stessa formula moderna del Sangiovese + barrique (utilizzata da un po’ tutti quelli che nella mia classifica erano i migliori produttori) iniziava a lasciarmi dei dubbi, mostrandomi i suoi limiti di ripetitività. I profumi ed il frutto del vitigno mi apparivano sempre più come soffocati, raggelati, compressi nella massa di quello sbuffo dolce di vaniglia e tostato, che ne sigillava e racchiudeva i tratti, rendendo così ognuno di quei rossi omogeneo, similare.

Quello che mi aveva tanto affascinato ed emozionato negli anni ’80, replicandosi di continuo, stava dunque perdendo man mano il suo fascino. Ed è inoltre strano, visto, come ho già detto, il dispiegamento di forze e di intelligenze del vino a disposizione e al lavoro su quelle vigne.

Possibile che non ci fosse un altro modo, un’altra idea da sviluppare su quel Sangiovese per mantenere l’integrità inconfondibile ed il puro nitore del suo frutto, per valorizzare al meglio quel patrimonio di profumi, di sapori?

Comunque ad un certo punto mi sembrò che tutto fosse ormai un po’ troppo visto e sentito. Avevo davvero l’impressione di una stasi, di un fermo. Quei vini non mi emozionavano più. Ed io sono un’anima in pena, che ha sempre bisogno di nuove suggestioni, di nuovo stupore.sergio-manetti-new-1152x759

Ci fu un avvenimento allora che mi turbò profondamente. Ho già detto che ero molto legato a Sergio Manetti ed ai suoi vini di Monte Vertine. Lui era per me un punto di riferimento importante, tra le prime persone che avevo conosciuto in Chianti Classico e che stimavo enormemente.

Sergio era stato male negli anni precedenti, ma, dopo un’operazione, sembrava tutto superato e risolto.

Eravamo verso la fine della vendemmia 2000, quando Sergio mi telefonò. Strano, era dopo cena. La sua voce sempre roca, ma molto affaticata stavolta, mi disse di colpo “Sto morendo. Mi piacerebbe rivederti”.

Ne ho i brividi e una memoria costante. Quelle parole e quel tono mi rimbalzano ancora nella mente. Non mi ricordo invece cosa fui capace di dire. Ero pietrificato. Dentro di me provavo a cancellare la notizia, a minimizzarla, a tentare qualcosa di impossibile davanti alla crudezza di quegli istanti.

Non so con che parole, ma promisi di andare, che ci saremmo rivisti. Ricordo che fu una telefonata brevissima, un rimandare ogni conversazione alla mia prossima visita. Ma ero terrorizzato. L’ho visto poi con altre persone, con i miei genitori. La morte è come se non riuscissi ad ammetterla. Non la voglio vedere.

Il vino lo vivo come continuità, dialogo, passione, idee, lavoro, attività. E io non volevo guardare Sergio moribondo. Volevo ricordarlo gesticolare, mentre raccontava, parlava, si infervorava. Ma sentivo anche quanta vigliaccheria, quanta povertà, quanta chiusura ci fosse in quel mio comportamento, in tutto quel mio terrore.

Traccheggiavo così. Rimandavo. Valutavo quale potesse essere il giorno giusto per il viaggio, ma non so quanto fossi sinceramente convinto di farlo.

Due settimane dopo mi arrivò la notizia che Sergio era morto.

Non sono più ritornato a Monte Vertine. E i pochissimi viaggi che ci sono stati poi in Chianti Classico li ho vissuti dentro un forte malessere.

Sono cosciente di aver perso così altri amici, di averli delusi, di non aver dato spiegazioni per quel mio non andare più a trovarli. Ma la mia avventura in Chianti Classico, nata nel 1974, sentivo che stava finendo lì.

Sublimavo l’assenza del suo Sangiovese in quei primi anni del nuovo millennio con il Brunello di Casanova di Neri, di Cerbaiona, di Poggio di Sotto. E mi dedicavo poi a nuovi territori come l’Alto Adige, a vitigni come l’Aglianico, il Sagrantino, il Montepulciano, poi negli ultimi anni ai meravigliosi vini di Bolgheri e di tutta l’Alta Costa Toscana.

C’era però anche un’altra azienda dentro quel lotto di produttori chiantigiani che seguivo, che non ho nominato in precedenza, perché merita ora un discorso più articolato. E parliamo appunto di Riecine.

Era, nei primi anni successivi alla fondazione, davvero una miniazienda, con poco più di un ettaro e mezzo di vigna, appena sotto il bel casale restaurato da una coppia di mezz’età. Lui John Dunkley, pubblicitario londinese che non vedeva l’ora di andare in pensione per coltivare il suo sogno nel Chiantishire, e sua moglie Palmina Abbagnano (nipote del filosofo) erano una coppia piacevole e solare. Ed in quella vigna intorno ai 500 metri, interamente esposta a sud sulla vallata di Gaiole, avevano imparato sin dai primi anni ’70 a fare il vino rigorosamente da Sangiovese. Coadiuvati poi vent’anni dopo dall’arrivo di un giovanissimo Sean O’Callaghan, nato nello Sri Lanka, dove il padre inglese dirigeva una piantagione di tè (che, per me che ne ho il culto, con acquisti annuali dall’Inghilterra di selezioni prevalentemente di Assam, per dei tè portentosi e superconcentrati da mitigare appena con un filo di crema di latte, è un biglietto da visita tutt’altro che banale).

Il ragazzo dunque era fresco di studi enologici appena ultimati nell’università di Geisenheim in Germania. Scuola di Riesling così e questo un qualche significato e peso lo avrà poi nella nostra storia, nel senso che lo studio del modello di un grande bianco non può prescindere dal rispetto delle caratteristiche, vorrei dire, antropologiche delle uve.

Mentre un enologo o un produttore è consapevole di poter lavorare sulle uve rosse in modo da portarle verso un determinato risultato. Intendiamoci, non è facile. Ma la differenza finale nei nostri grandi rossi, tra il vino appena svinato e quello che si assaggia dopo anni di cantina e botti dalla determinata tipologia, età e forma, è sostanziale. Dunque, nel migliore dei sensi, l’uomo può cercare di plasmare le sue uve rosse, domarle, portarle dalla sua parte in taluni casi. E comunque il suo pensiero e la sua azione hanno un peso, che può essere anche positivo nell’esito finale del vino.

Le uve bianche sono invece diverse, molto più difficili da indirizzare e piegare. Certo si può lavorare in vigna per tentare risultati migliori, il pensiero e l’azione dell’uomo hanno sempre un loro valore, ma poi conta moltissimo il frutto che quella vendemmia ha dato, che si può lavorare in cantina solo con mano estremamente delicata e leggera, assecondandolo, quasi direi proteggendolo, per valorizzarlo davvero.

Ora questo ragionamento (e compio qui uno spericolato passo in avanti, come in un vertiginoso flash forward) è per dire in sostanza che le uve di Sangiovese di queste meravigliose colline a 500 metri di altitudine hanno qualcosa a che vedere con le caratteristiche delle grandi uve bianche. Ho l’impressione e l’idea cioè che vadano più protette ed esaltate nei loro valori che non domate, plasmate e troppo conciate nei legni, perché questo, per tutta quella che è stata la mia esperienza, poi non le migliora, ma in qualche misura le violenta e le peggiora, comunque le banalizza.

Avevo, ad esempio, durante tutti quegli anni ’80 e ’90, il culto per il Chianti Classico di Riecine, un vino-base, d’accordo, ma tra i più belli ed eleganti della sua categoria, sempre ai primi posti nei miei assaggi. Chiaramente era un vino meno deciso e concentrato rispetto alla sua Riserva ed in particolare a La Gioia, che aveva esordito con la vendemmia 1982.

Per dirla tutta, onestamente e ovviamente, nei miei punteggi il Chianti Classico finiva sempre per raccogliere qualcosa in meno rispetto ai suoi fratelli maggiori. Era oggettivamente un vino più semplice, differente per misura, peso e selezione sin dalla nascita rispetto agli altri due. Mi appariva tuttavia (lavorato in modo più leggero in cantina e con meno legno) come un vino molto più centrato, più in armonia nei propri elementi e parametri, tutti perfettamente valorizzati e in equilibrio. Per fare un paragone un po’ azzardato (ma sì, proviamoci), era come una squadra di Serie B, con giovani calciatori sconosciuti, che gioca però un calcio bellissimo, dove tutti i movimenti si legano e partecipano all’unisono, creando un sincrono di azioni continue, veloci e armoniose, che è un piacere guardare. E squadra dunque che può creare molti grattacapi anche a quelle di rango superiore.

Era (è) un rosso più di freschezza, appunto con un tempo di legno assai più ridotto. Io francamente allora non pensai “Ma se si usasse la stessa, più leggera metodologia di cantina con la migliore selezione possibile di Sangiovese, che vino verrebbe fuori a quel punto?”. Non ebbi questa intuizione ed erano quelli poi anni lontani e diversi. Io stesso ero molto infatuato ed anche un po’ impantanato nel discorso-barrique. Aborrivo i legni vecchi e grandi per tutta la rovina che avevano causato a basi di vino che mi erano parse assai buone appena svinate.

Però l’esperienza che andavo compiendo dagli anni di fine millennio sul Brunello Poggio di Sotto (raccontata in questo sito ne Gli anni di …) cominciava a farmi aprire gli occhi sull’apporto di botti medio-grandi (in quel caso da 28 quintali), ma totalmente nuove, che davano sul Sangiovese ben altri esiti.

Comunque la Riserva di Riecine e La Gioia erano certamente dei vini molto belli, tra i migliori e più eleganti risultati del territorio, ma, come appunto tutti i più importanti del Chianti Classico, presentavano una specie di sfocatura. Era evidente che si rincorresse cioè una concentrazione, una massa, una voluminosità, che si voleva poi levigare e tostare, vanigliare. Ma, a mio avviso, non era quella la via per esaltare quei vini, perché particolari e diverse erano le caratteristiche, i valori intimi e profondi, quelli più buoni e veri delle sue uve.

Credo, ripeto, si stesse andando fuori strada e che lì si sia perso del tempo in tutto il Chianti Classico, dopo averne guadagnato molto all’inizio.

Pochi mesi fa però, impensabilmente, portando al naso un calice di vino chiantigiano che bevevo per la prima volta, ho fatto una scoperta che mi ha lasciato felice e stupito. E’ stata una cosa tanto improvvisa e inaspettata da lasciarmi di stucco. Ho anche pensato lì per lì, con un sorriso, che la storia avanza, il tempo ci sorprende e porta con sé delle correzioni, degli aggiustamenti. L’umanità, i territori procedono nel loro corso lento e placido, che tutto il pensiero respira e cammina insomma benissimo, anche senza di noi, pure lontano da noi.

E questa sorpresa è avvenuta assaggiando il Riecine di Riecine 2012. Un rosso incantevole, magnifico, innovativo, che solo all’annusarlo, mi ha trascinato in un commosso effetto-madelaine, assieme ad una grande emozione ed una vera gioia, perché è stato come avvertire improvvisamente il frutto e gli aromi del Chianti Classico che avevo stampati però nel desiderio della mente, quelli che avrei voluto sentire da sempre, con la loro luminosità e fragranza, la loro bellezza e la loro franchezza, ma questa volta anche con uno spessore fulgido, adamantino, con un’intensità di profumi alti, tesi, tersi, sguainati, puri, senza che nulla li coprisse, li velasse e li sviasse, in un certo senso li contaminasse.

Sono stato lì a rigirarmi il calice, mentre sentivo un’ampiezza nervosa, vivida, una freschezza di fiori e frutto, una corolla ancora spigolosa e minerale dolcissima, assieme a tutta la vastità, la larghezza aromatica che il Sangiovese manifesta in taluni casi, quando si sublima.

In quella sua più intima varietalità, in purissima chiave Chianti Classico, mi sono tornati alla mente taluni rossi di Borgogna. Ed è questa la traccia che lasciano in noi i grandi vini, diversissimi i vitigni, lontane le zone, ma ad accomunarli è la superiorità, la dimensione e le movenze del loro respiro, quella fascinosa larghezza, quel continuo variare nel calice, quando nulla li comprime, li devia e possono così salire, crescere nell’aria, cambiare in un crescendo di variazioni, di vortici, che fanno la vera differenza tra un vino medio, che rimane statico, ripetitivo, senza cambiamenti (perché non li possiede dentro di sé e non può far altro che replicarsi). Ed il vino emozionante, che riesce a stupirti ogni volta con l’ampiezza, le continue mutazioni e sollecitazioni del suo corredo aromatico, pieno di nuove apparizioni.

Mi sono informato subito di cosa fosse questo Riecine di Riecine ’12, da cosa e come nascesse un vino simile. Sua origine, vita e miracoli. E nulla arrivava a caso, come più continuavo a verificare. Etichetta dunque via via messa a punto dalla vendemmia 2010, frutto del miglior Sangiovese della più vecchia vigna aziendale, proprio quella originaria, sotto il casale, con il suo terreno di quarzo, rocce, argille, in una altitudine importante come 500 metri e completamente esposta a sud. Uve raccolte con estrema delicatezza, per miniparcelle e pigiate poi con i piedi per evitare la rottura dei vinaccioli che darebbero amaritudini ai mosti. Fermentazioni naturali lentissime, senza lieviti aggiunti, così come le macerazioni sulle bucce che arrivano ai 40 giorni.

Ma particolarissime poi sono le modalità di elevazione, che nel Riecine di Riecine 2012 vede i suoi tre anni prima dell’imbottigliamento distribuiti tra vasca inox e, soprattutto, vasca di cemento Nomblot e anche tonneaux usati. Una mutazione copernicana che porta ad un risultato di raggiante bellezza, che schiude e protegge il frutto e che può diventare un punto di riferimento per nuovi percorsi chiantigiani sui suoi più grandi Sangiovese.

Doveroso, indispensabile a questo punto sentire tutti i vini di Riecine usciti negli ultimi anni, recuperando così il mio povero tempo perduto. E devo dire che sono stati assaggi illuminanti, che mi sono gustato con patriarcale lentezza, con la serenità che dona l’età che avanza, nel piacere di verificare vini che centrano i tasselli, che trovano un grande ordine, una bellissima disposizione del gusto, che posseggono ed emanano un’estrema finezza estetica. Bottiglie che ho poi continuato ad assaggiare anche a distanza di 1 giorno e di 2 (quando un minimo ne era rimasto), verificandone ulteriormente l’integrità e la tenuta.

Occorre poi tener conto di come l’azienda sia cresciuta nel frattempo fino a 21 ettari di filari, acquisendo man mano terreni di gran valore e piccoli appezzamenti sempre limitrofi alla vigna-madre (processo che era già cominciato con John Dunkley), in cui rimane una costante di altitudine tra tutti loro, ma con una più ricca varietà e diversità nelle particolarità e composizioni dei suoli, per arrivare così ad una più vasta ampiezza di variazioni e complessità nei vini.

Fittezza delle viti che è passata poi dalle 3.400 ad ettaro degli anni ’70 alle 5-6.000 dello scorso decennio. Il sistema di allevamento è sempre stato il Guyot, ma si allargato negli ultimi filari anche all’alberello, vista la mutazione climatica in atto.

A queste ulteriori possibilità di selezione va aggiunta poi la nuova cantina, proprio sotto il vecchio casale, che nei suoi ampi spazi ha consentito, dai tavoli di cernita dei grappoli e dei migliori acini, la continua sperimentazione e messa a punto poi di tutta una serie di nuovi metodi per estrarre il frutto delle uve e mantenerlo sempre più integro, con fermentazioni in piccoli contenitori aperti e l’immersione del cappello più volte al giorno e ancora nuove vasche di cemento, dèlestage, controlli termici. Ma va soprattutto sottolineato come sia stata l’intera filosofia agricola ad evolversi in questi ultimi 15 anni, con le lavorazioni in vigna sempre più indirizzate verso una naturalità assoluta, giungendo ad una viticoltura biologica e biodinamica su tutti i filari. riecine_la-cantina-e-le-vigne-2

Inizio così proprio dall’assaggio in contemporanea de La Gioia e del Riecine di Riecine che hanno confermato di toccare il loro punto più alto con la vendemmia 2012, a riprova certamente di una grande annata, ma anche, nel Riecine di Riecine, di una messa a punto sempre più sicura e centrata del vino.

Ripeto ancora una volta che sono piuttosto avaro (ma forse è meglio dire oculato) nei punteggi, che fotografano solo l’oggi di quella particolare etichetta. Mi sembra l’unica cosa corretta e possibile da fare. E mi rimane un bel dubbio poi su questo Riecine che tanto mi ha colpito. Nel senso che vorrei veramente sapere cosa il 2012 potrà diventare tra 3, 5 o 10 anni. Perché il suo potenziale è enorme, essendo un vino giovanissimo e freschissimo, certo oggi con una forte propensione alla godibilità, assai gustoso, ma con un’anima davvero cruda e brada, che deve ancora svolgere, elaborare e sviluppare la fase più profonda e complessa del suo mondo.

A questo proposito poi una mia recente esperienza mi ha fatto molto pensare. Riassumendo rapidamente, per particolari vicissitudini e miserie del nostro quotidiano, ho dovuto lasciare una cantina che possedevo, piena di vini della seconda metà degli anni ’90. Il loro trasferimento in un nuovo locale ha riportato alla luce (ed alla fruizione) un mare di vini rossi delle vendemmie ’93, ’95, ’96, ’97, ’99 e così via. C’erano ovviamente anche rossi del Chianti Classico e la cosa che mi ha colpito è stato il constatare come i Chianti Classico base, che avevano appunto avuto un tempo di cantina e di legno assai più leggero, stessero da un punto di vista di tenuta e di freschezza gustativa assai meglio dei loro fratelli maggiori da Sangiovese, che nascevano da selezioni certamente migliori, ma che erano anche stati superconciati nei legni. Allo stato dei fatti molti di questi più importanti vini erano oramai al loro termine, piuttosto sfiniti, stanchi e palliducci. Insomma non è stato un grandissimo piacere degustarli.

I Chianti Classico invece, che erano nei fatti dei rossi-base, pur senza manifestare una particolare complessità (che per selezione di origine non avevano nemmeno in gioventù), erano quasi sempre estremamente prestanti, freschi, vivi e insomma godibilissimi.

Allora un qualche ragionamento occorre pur farlo. E sappiamo tutti che il tempo di legno è anche un tempo ossidativo nel vino. Così mi vado convincendo ancora di più che un lungo periodo di barrique su questi Sangiovese sia sbagliato. Intanto per ragioni estetiche, perché trucca e camuffa il vino in forme che non gli sono proprie e congeniali. E sia inoltre anche controproducente, perché di fatto ne riduce le possibilità di tenuta e dunque di vita futura.

Allora meditiamo tutti con tranquillità e senza partigianerie. A me sembra che questo Riecine di Riecine ’12 abbia trovato una soluzione rilevante, una quadratura del cerchio nobilissima. E’ altrettanto vero poi che la sua ricetta non è applicabile in uno schema rigido. Ogni grande vino di questo vasto territorio ha la sua verità e particolarità. C’è dunque tutto un lavoro da fare per ogni azienda del Chianti Classico. Ma esiste anche un’intuizione, un’idea di fondo importantissima che può essere colta e dare benefici ed accelerazioni alla grandezza dei suoi migliori Sangiovese.

Allora, tornando agli assaggi, mi sono concesso il piacere del Riecine di Riecine ’12 accanto al La Gioia di pari annata (che ha innovativamente maturato due anni in tonneaux invece che in barrique, come era stato nel passato, oltre ad avere una differente origine di vigna).

Così assaggiare questi due grandi vini è stato quanto mai intrigante, perché raccontavano la storia in fondo recente del Chianti Classico, il suo cammino moderno, ma anche la sua possibile evoluzione verso una focalizzazione più perentoria della vigna e della sua espressione di frutto.

La Gioia dunque spingeva più sul volume, sulla massa, la concentrazione. Il colore manifestava una tonalità appena più profonda, con un naso severo, cupo, importante, appena chiuso, da cui emergevano note di frutto affumicato, sottobosco, nocciolato, principio di spezie. Oltre che risultato di una bellissima vendemmia a Gaiole, questo La Gioia appariva al naso alleggerito nei legni rispetto alle precedenti versioni. Anche la bocca al primo impatto era più fresca di quanto non mi aspettassi. Poi man mano si avvertiva il grasso, la consistenza, la materia, il volume del vino, tutto percorso comunque da note tostate e lignee qui decisamente presenti, in un gran rosso denso, pieno di sfumature, che deve oggi ancora amalgamare e fondere i suoi componenti. Rosso che tutto sommato rimane legato alla concezione e al disegno dei Supertuscan da Sangiovese degli scorsi decenni, ma che tenta al tempo stesso di alleggerirsi e modernizzarsi.

Ora è evidente che La Gioia è un’etichetta storica, che ha i suoi cultori e non può essere troppo modificata. Però confesso che in quel momento avrei voluto sentire un vino con lo stesso tragitto di cantina del Riecine, per capire e godermi il diverso sapore delle sue vigne, il differente frutto per la diversa composizione di suoli, dei quantum di luce ricevuti, e tutte le incredibili variabili e sfumature che esprime il Sangiovese da vigneti anche molto vicini.

Così, accanto, era il Riecine di Riecine ’12 a colpirmi maggiormente. Era la novità assoluta, la modernità ed esprimeva l’altezza perentoria dei profumi della sua vigna, alti e smaglianti, con il loro frutto agile e bellissimo, tra viole, lamponi e ciliege, purissimo e senza veli, senza coperture, nitido e nervoso. Così come il vino appariva poi incredibilmente setoso e rasato alla bocca, in una fase totalmente giovanile eppure godibilissima, piena di dolci scaglie minerali, che mi lasciava una curiosità estrema sul suo possibile futuro. Le note di legno non erano minimamente avvertibili, come se il suo ruolo, che, seppure in modo ridotto, c’era comunque stato, fosse solo servito a stabilizzare e proteggere il frutto di questa vigna, senza coprirlo o modificarlo, senza dargli belletti, ciprie e parrucche, lasciandolo così vivo e libero.

Assaggiavo dunque un rosso splendido, terso, che apre portali e idee, rimasto poi elegantemente integro e palpitante anche nei 2 giorni successivi, dove, in quel lunghissimo arieggiamento, lasciava presagire, in nuovi lampi di profumi, con nuove luminosità e chiaroscuri, una straordinaria e profonda importanza evolutiva.

Anche in questo secondo assaggio, che andava a riconfermarsi, devo confessare di aver provato un senso segreto e gioioso di mia riconciliazione con il territorio. Mi sono sentito riappacificato con la sua storia, i suoi personaggi, con gli amici che ad un certo punto ho trascurato ed ho perso, con i viaggi non più compiuti. Per tutto quello che era stato, per questo lungo tempo di separazione, trovavo un nuovo vino che diventava un inizio, una rinascita. Perfettamente agganciato al suo mondo e al suo passato, da una vigna di Sangiovese con 45 anni di età, che si apre a perdifiato sulla valle di Gaiole e poi sui suoi monti, per tutti i suoi spiragli ancora possibili e straordinari che lasciava intravedere.

Anche La Gioia 2011 poi confermava (come vedremo) un appoggio più leggero nei legni rispetto al passato. E l’anno in più di bottiglia gli conferiva un assetto già maggiormente compiuto e ordinato nei profumi, come un gran rosso della prima maniera Supertuscan, che mostra muscoli e morbidezze vanigliate e tostate, dove si iniziano ad affacciare creme, inchiostri, goudron. Vino molto elegante e colto, in cui si avverte un pensiero, un’estetica. E al primo impatto, in quei primi minuti nel calice, proprio nel bilanciamento, nella consistenza ed in quella sua dolce, levigata grazia espressiva, in quella bellezza di fattura e di composizione, quasi lo preferivo al Riecine di Riecine ’11, che invece, per alcuni, primi momenti, appariva crudo e statico.

Poi però quest’ultimo vino ha cominciato ad ossigenarsi. Si è aperto e si è staccato. Sono saliti volumi di fiori e tutto con una naturalezza, una levità, un brio di forza, di slancio. Ecco, se c’è una cosa che mi ha stupito, è come sembrasse non poter essere più imbrigliato da nulla. Questo Riecine aveva una pulita energia minerale che si apriva, si dispiegava, dando il sapore della vigna, quel timbro, l’anima pura del Sangiovese di Gaiole, la vigna alta con il suo frutto, la grande ampiezza che si apre a corolle di tabacco e cacao, un accenno di fumo ed essenze. E che, rispetto al La Gioia, rimaneva più crudo e selvaggio, ma anche più vero ed autentico, più cristallino, più anarchico e libero. Con un tessuto di altissima sericità alla bocca, nudo, fresco, di una classe e giovinezza estrema.

Rispetto al ’12, questo 2011 lo trovo con un cenno appena di minor precisione nella messa a punto, forse anche un filo di minor energia a dispiegarsi. Ma grande vino certamente.

Infine La Gioia 2010 mi è apparsa in qualche misura, complice anche l’annata opulenta, il prototipo al suo meglio del classico Supertuscan da Sangiovese ed il massimo risultato che si può ottenere dalla sua ricetta, ma che ne evidenzia anche tutti i limiti. La grande vendemmia solare ci dona un rosso molto alcolico e massiccio, molto muscolare e grasso (seppure poi tutto questo è sempre mitigato dall’altitudine), assai profondo al colore e con un naso vanigliato, dolce, in cui appare chiaro l’intero disegno della costruzione, con i suoi due anni di barrique in questo caso.

E’ indiscutibilmente un vino di notevole fattura, con, alla bocca, una buona freschezza acida unita ad una sensazione lignea che stacca ancora un po’ e che si fonderà meglio nel tempo, che tende alla crema voluminosa, ad una muscolarità gustosa, che accenna le prime note di goudron e di bruciato, in un frutto che appare però fortemente soverchiato e coperto. Classico ed esemplare Sangiovese di nuova generazione, che meno mi persuade e mi prende, perché vede prevalere, in parole povere, la cantina sulla vigna. Con una bellissima architettura, probabilmente datata, ma molto da godere nella sua sapienza costruttiva, nelle sue volute e nei suoi intarsi, in cui però il territorio, il suo frutto e la sua vigna fanno molta fatica a vedersi ed a capirsi. Ed è questo ad un certo punto che mi ha portato ad allontanami dal Chianti Classico.

Sono sempre più convinto che il suo Sangiovese, quando è grandissimo, debba essere lasciato libero. L’arte, l’intelligenza del produttore è in questo saper innescare il suo frutto, quando è ancora bambino, saperlo proteggere e far crescere. Poi, ad un certo punto, essere capaci di lasciarlo andare.

Ma c’erano i Chianti Classico ancora da verificare, in una miniverticale delle vendemmie 2013, 2012, 2011. Ho già detto come questa etichetta fosse in passato ai miei vertici tra i pari categoria. E ho avuto il piacere di vederli confermarsi in assaggi magnifici, bilanciatissimi e profumati, che rispecchiano perfettamente le differenti vendemmie.

A distanza di più di dieci anni, durante i quali il nostro gusto cammina, si evolve, continuamente sollecitato dai tanti nuovi vini apparsi in questo tempo, li ho ritrovati come se parallelamente, separati da me, avessero comunque compiuto un tragitto similare. E qui ritengo che i passaggi di vigna siano stati fondamentali, l’abbandono della chimica, l’infittimento delle piante condotte a bassissime rese, l’inerbimento tra i filari, una prima vendemmia a metà settembre dei grappoli più verdi e lontani dalla pianta, in modo da lasciare più linfe nelle settimane finali solo ai grappoli più colorati e maturi. Con un cammino in sostanza similare poi al Riecine di Riecine in cantina, con le uve pigiate delicatamente. Fermentazioni naturali con vasche aperte e tini di cemento, usati poi anche per la maturazione dei vini, assieme a botti e botticelle usate. Anche se poi l’utilizzo pieno della nuova cantina con i nuovi contenitori si è potuto avere solo a partire dalla 2012. E non è dunque un caso se anche qui i migliori risultati li ho verificato appunto su questa vendemmia, che probabilmente, come esito finale delle uve, poteva avere anche un decimale in meno rispetto alla 2011. Ma fare il vino a questi livelli è un’intuizione ed un’arte, che necessariamente ha bisogno di spazi, di strumenti e di tempi, proprio per poter così fare a meno di ogni intervento invasivo o di un eccessivo soggiorno nei legni, perché non si hanno a disposizione altri contenitori o vasche.bp15-20319

In più ho avuto la sensazione nell’assaggio di tornare ad un inizio, ad un cerchio che trova il suo raccordo. Questi Chianti Classico, più piccoli nelle dimensioni rispetto alle selezioni migliori, avevano però fin dalla loro nascita in molti casi centrato il punto, trovata la soluzione su come valorizzare al meglio le uve da cui nascevano. Bisognava ripartire da lì. Era quello il modo, ne eravamo ad un passo. Il Sangiovese superiore, la sua migliore selezione doveva solo ampliare nettamente il peso, la vastità, l’altezza, la complessità e la profondità del suo Chianti Classico base, senza modificare i propri tratti, senza deviare e truccare i propri lineamenti.

C’è voluto del tempo, ma, se si è arrivati a capirlo, tutto trova poi un senso ed una felicità, perché niente così è trascorso invano.

Il Chianti Classico ’12 dunque mi è davvero parso come la porta d’ingresso al Riecine di Riecine, la sua anticamera gustosa e colorata. E’ un giovane rosso un po’ acerbo, certo più piccolo, più scorrevole, più nobilmente quotidiano, ma carico di energia, squillante, masticabilissimo e dai tannini vivi e saporosi. Un vino ancora in piena evoluzione, con un suo primo accenno ad un frutto che si va ad ammorbidire verso le creme.

La 2013 è stata invece decisamente una vendemmia più fresca e umida, diciamo, più difficile. Ma abbiamo qui un vino lungo, intenso, nervoso, incisivo, floreale, che crescerà nel tempo, anche se rimane più sottile rispetto alla ’12. Comunque assai fine ai sapori, elegante, gustoso anche se un po’ crudo in bocca, ma con sapida, masticabile freschezza.

Il Chianti Classico 2011 infine è il più ricco e maturo, anche il più boisé, frutto di una vendemmia calda e generosa. Grasso e denso dunque, alcolico, è il più corporale dei tre e nello stesso tempo il più compiuto e pronto in un suo apice bilanciatissimo e saporoso.

 

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