La Monacesca

I Bianchi La Monacesca (in una torrida sera d’estate …)

Mirum Riserva 2012    92

Mirum Riserva 2010    91-92 

Ecclesia 2012    91

Verdicchio di Matelica 2013    87

 

Nel pieno di un torrido e apocalittico luglio romano, obbligati alla città e ad un appartamento senza condizionatore (ma ho pronunciato ormai il voto solenne di farmene installare uno o due al più presto), quando la percezione della temperatura (da quanto andavano annunciando imperturbabili volti televisivi) è intorno ai 49 gradi, quale può essere, seppure non l’unico, ma certamente il modo migliore per sopravvivere?

D’accordo, si può continuamente transitare da un centro commerciale ad un cinema, finanche vivere dentro un supermercato, infilando il letto ed altre cianfrusaglie private nella vasca dei surgelati. Ma ce n’è un altro, più sicuro e nobile, che ho avuto la ventura di scoprire. Ed è nella fortuna di imbattersi in un grande vino bianco, giustamente fresco intorno ai 10 gradi, isolarsi allora nel suo mondo, sentirlo salire in un vortice di profumi deliziosi che sbancano la calura, rimanerne stregati, goderne la gioia, la stupefazione, folgorati come per una scoperta e staccarsi così da tutto il malessere, l’afa e l’umidiccio, la tristezza e la perfidia di un universo che ti attanaglia e consuma.

Tutto questo mi è accaduto nella sera del 10 luglio 2015, intorno alle ore 19, con l’assaggio del Mirum Riserva 2012 e poi, accanto a lui, del suo fratello nato nel 2010. Anche in una serie di impressioni private e personali tutte allora da sbrogliare, perché questo bianco mirabile (nomen omen) non lo sentivo da diversi anni. Eppure io lo avevo visto nascere con la vendemmia ’88. Ricordo poi la ’91, la ’94. E avevo continuato a seguirlo fino al termine del vecchio millennio.

Con le vendemmie successive poi (colpevolmente) l’avevo perso di vista. Lo davo come un valore ormai sicuro, forte, acquisito. E dovevo a quel punto dedicarmi ad altro, a nuovi vini da scoprire, a territori solo ai loro primi passi, ma con potenzialità immense lì lì per sbocciare. In un ansia insensata a cercare di scoprire tutto, a non volersi perdere niente e a non stazionare su quanto già si sa.

Ritrovarlo poi in questi giorni, gustarlo, insaporirmene, scoprendolo tanto in forma e smagliante, mi ha dato appunto sensazioni in forte contrasto. Sicuramente di felicità per il risultato, per la bellezza purissima di questo bianco superbo dell’Italia Centrale che assaggiavo e ritrovavo come una novità, ma assieme anche di rimpianto e malessere per essermelo perso lungo un buon numero di anni. E qui la sciaguratezza del mio carattere, questa attrazione per il nuovo, la corsa verso territori che stanno per nascere, per vini inediti. Con l’affanno irragionevole di questo lavoro a voler sempre sentire, provare, confrontare, scoprire. Verificando in modo un po’ angoscioso anche l’impossibilità oggettiva di riuscirci, il limite umano, fisico, che ci circonda, impedendoci di poter assaggiare tutto di tutti, in ogni anno che il Signore manda sulla nostra terra.

E’ il grande equivoco che gira. Nessuno è appunto in grado di farlo. E ci si affida così a gruppi che si occupano di zone, a collaboratori che scremano. Ma io, che mi fido assai poco e a malapena anche di me stesso, come posso? Il gusto è talmente privato e personale, legato all’estro, alla sensibilità e alla cultura che si possiede, all’intuizione, alla sincerità e all’onestà più assoluta di quell’attimo, di quell’approccio. E, quando poi un vino mi piace parecchio, ci sto sopra, lo annuso, lo sento, lo sbrano, lo vivo, mi ci immergo. Ma insomma come posso affidarmi ad altri, a menti e personalità inevitabilmente estranee a tutto il mio mondo di riferimenti?

Così si fanno delle scelte. E fatalmente in certe fasi mi sono lasciato dietro territori e vini indagati per decenni. Sentendomi giustamente dire da produttori frequentati prima per anni e poi non più, che mi riapparivano davanti all’improvviso, non so, in un evento, una manifestazione, una degustazione, e mi ora guardavano davvero delusi “Ma che fine hai fatto?”. Ed io lì a bofonchiare confuso qualche meschina scusa pietosa.

Però è così. Il filo degli assaggi non sempre ha un estro logico, si trascurano spesso vecchi amici, per andare dentro spazi nuovi e intentati. Nel caso del Mirum però devo fare adesso ammenda piena e pubblica, battendomi il petto. Mi sono perso sicuramente molto piacere in un gruppo di vendemmie tra il 2001 e il 2009, in un tempo dedicato ad altri vini (alcuni anche molto buoni però). Mentre questo bianco dell’Alta Valle dell’Esino non ha fatto altro che mantenere tutte le stimmate del fuoriclasse. Credo anzi, se vado al senso completo della memoria che ne ho, che abbia guadagnato anche qualcosa in più con le piante che hanno via via maturato, così come cresceva l’esperienza di Aldo Cifola e dei suoi collaboratori. 1H4A0519

L’assaggio è stato dunque entusiasmante (tutti i miei punteggi, l’ho già spiegato nell’articolo Montalcino 2009, 2008 … , possono sembrare non stratosferici, ma è per tutti così. Mi tengo realisticamente ai dati della degustazione e a quello che potrà essere il poi, considerando i margini di ulteriore miglioramento) e credo che sia molto difficile per gli altri bianchi italiani giungere ai livelli tanto perentori del Mirum.

Il suo colore mi appariva leggermente carico, da vino che annuncia densità, ricchezza. Ed il naso brillava subito in uno stacco succoso, intensissimo di frutto che si apriva agli agrumi, al miele e dava note di appetitosità immediate, ma nello stesso tempo complesse, molteplici, da sentire, dipanare e insomma tutt’altro che banali. C’era lì dentro l’integra rigorosità del Verdicchio e la continentalità climatica del territorio di Matelica, l’altezza intorno ai 400 metri delle vigne, in un’area bellissima, ma più difficile, tagliata via dagli effetti calmieratrici del mare, con forti escursioni termiche (fondamentali però tra settembre ed ottobre per allargare l’arco dei profumi).

Risultato straordinario dunque per tanti motivi. Innanzitutto non si parte da un vitigno considerato di perentorio top mondiale, e che fa rimarcare, appunto per questo, quanto lavoro forte e silenzioso sia stato compiuto in questi decenni dai vignaioli italiani, quanti tentativi e quante intuizioni a capire le piante, il vino che ne può nascere, eliminando via via limiti, esaltare qualità, isolando le vigne migliori, tentando qui la surmaturazione in pianta, per arrivare a risultati di un’armonia assai più ricca e profonda e verificando quanto si possa incredibilmente crescere.

Parliamo poi di un vitigno non particolarmente aromatico, di quelli sgargianti, che ti abbindolano in effetti speciali e vistosi, con i brillantini che luccicano, come per il viso di una modella bellissima e molto truccata. Qui il panorama è più realistico, asciutto, senza ciprie o belletti, senza riccioli, divagazioni, ed appare appunto veritiero, diretto, essenziale, di una sincerità per niente effimera e dunque reale, intima. E’ l’energia, la concentrazione, la ricchezza trattenuta nel Mirum a dilatare i confini del vitigno, a travalicarne i limiti in una intensità generosa, straordinariamente piena di crema, mantenendo assieme una nettezza, una sincerità, un controllo, una riconoscibilità di grande bianco del Centro Italia (che nel mio immaginario è un valore forte e di memoria) e ad emanare una sensazione di appetitosità quanto mai pronunciata, da vera e propria acquolina in bocca.

Così, in quella serata in cui tutta la città stazionava in una bolla immobile di caldo spettrale, la mia mente riprendeva vita accanto questo bianco dai profumi originalissimi, rimanendo incuriosita e nello stesso tempo non sazia. Volevo andare oltre e assieme mi domandavo (il cervello stava riprendendo a funzionare) cosa ci aspettiamo nel profondo e nel reale da un grande vino bianco. Quale è la combinazione che riesce a sparigliare le carte, ad aprire nuovi spiragli in altezza di profumi e poi in ampiezza, tra note di fiori e frutta in attrattiva fortemente succosa, in questa continua impressione di freschezza ed assieme di superiore densità, più che compatta, aperta ad infinite varianti e variabili, come solo riesce a fare un grande bianco mediterraneo?

Così, come più ruotava il calice e virava il vino in un gioco di specchi che si aprivano, si avvitano impalpabili cerchi. E allora, totalmente attratto, continuavo a goderne i profumi, risentivo scorrere l’esistenza. Il mondo del Mirum usciva via via. Travalicava il caldo esterno della stanza e mi appariva il suo carattere, l’originalità, l’alchimia armoniosa, composta di infiniti tasselli minimalisti, il suo timbro sonoro, cremoso, la surmaturazione delle uve, poi terreno, vite, stagione, tralci e foglie che hanno fatto ombra o sono state potate, perché arrivasse più sole. Quello era il colore ed il profumo che avevo davanti, il risultato con la sua storia, il rapporto con il viticultore, con quanto lui è riuscito ad intuire delle piante, a lasciar fermentare e crescere poi nelle vasche, giungendo infine, anno dopo anno, ad esaltarne le qualità, i segreti, i valori.

A quel punto la bocca, troppo incuriosita, si è aperta d’istinto. E dal calice si è davvero rovesciato un balenio di sapori, con i microscopici nuclei minerali del Mirum a ravvivare e accendere la densità corposa della trama, facendo brillare la densità matura della frutta, la crema delle mandorle, un sotterraneo, impercettibile filo di buona acidità ad attraversarle e assieme il fiore della vaniglia tostata e del miele.

Appunto ai sapori questo 2012 confermava una bellezza, una succosità sapida da primato, la dolcezza minerale particolarissima di un suolo che per milioni di anni è stato un fondale marino e la sua combinazione con la densità alcolica a dare un senso di generosità soave e nello stesso tempo nervosa.

Alla bocca davo un punto in più che al naso (da autentico vino mediterraneo). Ed il Mirum appariva pieno ancora di grande energia, direi quasi teso ed elastico (in questo senso la 2010, assai simile nella bellezza e nella definizione del quadro, appariva appena più maturo e statico, con molta energia già distribuita e dunque prossimo all’apice).

Continuavo così a bere, a piccoli sorsi, conversando, guardando. Con la vita che mi scivolava addosso, sorrideva. E le impressioni si moltiplicavano, sfrecciavano. I sapori erano tenuti uniti, saldi in un senso dolce che rassicurava l’inconscio (è tutto talmente buono, così carico di gustosità, che può farti solo bene) e ti portava ad inghiottire serenamente, in completo piacere. Pensavo “Il grande bianco è in un trillo, una nota che ti stupisce, la movenza di una ballerina, la bellezza di un corpo femminile che esce dall’acqua del mare e ti avvolge”. Ed era un’impressione che volevo continuamente riprovare, in una serata che, dalla sofferenza, si era tramutata in piacere. Mentre dal balcone la luce scendeva e cominciava a sollevarsi una prima brezza.

Nei giorni successivi poi (e torno così ad un tono più tecnico) ho assaggiato gli altri due importanti bianchi dell’azienda. Inizio dal Verdicchio di Matelica 2013, che è una sorte di grande vino di partenza, che ne misura appunto la qualità e la serietà di lavoro. Stesso il vitigno, le vigne sono circostanti a quelle del Mirum. Ma la raccolta delle uve è qui in tempi di perfetta maturazione, senza attendere oltre. Bianco dunque più sottile e puntuto rispetto al fratello maggiore (che è comunque un gigante), ma c’è un medesimo spirito intimo ad avvertirsi in lui, che è quello del vitigno e dell’altezza delle sue vigne. Parliamo inoltre di un vino di un anno più giovane e di una vendemmia più fredda e difficile, come appunto la 2013.

Naso allora più acuto, nervoso e al tempo stesso pieno di succo, tutto pervaso di accenni minerali a dargli nerbo, energia, carattere. Si avverte una notevole bellezza formale, una tecnica di vinificazione ineccepibile, che è un grande valore acquisito, raggiunto. La bocca poi è saporitissima (come sempre nei vini dell’Italia Centro-Meridionale, soprattutto in quelli che nascono da vitigni autoctoni, la bocca ha un impatto superiore e più vasto rispetto ai profumi), gustosa, sapida, con un filo ancora agretto a segnare questa vendemmia. E la palatalità minerale, saporosa si avverte notevolmente alta, gustosissima, da perfetto vino da pesce.

Con l’Ecclesia 2012 entriamo invece in un altro capitolo de La Monacesca, che è quello di sperimentare nelle sue vigne lo Chardonnay. Diversi i cloni che sono stati utilizzati, fino ad arrivare oggi a possederne otto.

Ma misurarsi con un grande vitigno storico ed internazionale credo sia per un nostro produttore un passaggio culturale importantissimo e doveroso. Più che un Erasmus, è un superiore corso post-universitario a studiare le soluzioni più alte su un vitigno selezionato da secoli alla sua migliore espressività. Ed è indubbio poi che quanto si apprende da tutta questa esperienza, sia in vigna che in cantina, possa portare a margini di ulteriore miglioramento sulle varietà proprie ed autoctone.

In questo senso interpretiamo la scelta di far fermentare ed evolvere a lungo questo Chardonnay solo in vasche inox. Appunto la vinificazione rivela molti punti in comune con il Mirum, che fermenta e rimane fino all’inizio della primavera successiva sulle proprie fecce fini, trascorrendo poi altri 18 mesi in acciaio.

L’Ecclesia, che viene vendemmiato a fine settembre (un mese prima dunque rispetto alle uve del Mirum), rimane appunto quattro mesi sulle fecce fini, prima di essere posto in bottiglia.

La considerazione è che il Mirum, nonostante nasca da uve raccolte surmature nell’ultima decade di ottobre, abbia una materia prima comunque più dura, una massa, una forza d’urto in qualche modo più selvaggia e nello stesso tempo più longeva. Questo anno e mezzo in più in vasca è necessario a comporlo e ordinarlo. E solo a quel punto il vino viene posto in bottiglia e può così maturare ed evolversi positivamente per altri 8-10 anni.

L’Ecclesia nasce invece da una materia prima che ha avuto una sua selezione e una “scuola” da secoli. Dopo i mesi di evoluzione sui lieviti, riesce già ad esprimere il proprio mondo e uno stato di grazia, di bellezza, di soavità. Può dunque a quel punto essere imbottigliato.

L’assaggio dell’Ecclesia 2012 ha dato così uno Chardonnay perentorio, di grande fascino e spessore, una sorta di prova d’autore magnificamente convincente. Vino colto, più femmineo del Mirum e che nello stesso tempo risponde alle piene caratteristiche territoriali di Matelica.

Il naso rivela un varietale dichiarato, dolce, succoso, in cui si coglie la superiore espressività del vitigno in chiave di ricchezza ed eleganza perentoria, sempre in magnifico equilibrio tra la bellezza della crema e la nordicità nervosa di questo terroir. I profumi sono assai ampi con sensazioni di acacia, cera d’api su un dolce sfondo fresco e agrumato. Bianco ancora giovanissimo, ricco di spazio ulteriore, con una tesa acidità minerale a donare nerbo ed un grandissima impressione di gustosità e bellezza armoniosa. Grande bocca dunque anche qui. E, non ne parlo quasi mai, ma tutti questi bianchi, così belli e diversi, hanno anche il merito comune di un magnifico rapporto qualità-prezzo.

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