San Giovenale

Habemus 2011  90-91

Habemus 2012  92

E’, a mio avviso, il vino della regione dal potenziale in assoluto più alto. Lo seguiamo sin dal suo esordio con la 2010 e dobbiamo dire che la crescita l’abbiamo verificata con la 2011. Ma ora con la vendemmia 2012, più diretta e nitida ai profumi, l’avvertiamo davvero sostanziosa e prorompente.

L’Habemus ’12 rivela una massa di frutto, una corposità, un’energia, una vivezza, una forza intima che ha pochi eguali ed è una vera gioia agli occhi ed al palato. E’ uno di quei vini che ad assaggiarlo strappa il sorriso, perché il contenuto evoca suggestioni ancestrali, ricordi, ma forse, se è possibile, anche una memoria storica seppellita dentro di noi da infinite generazioni. E’ il vino-archetipo di un’Italia lontana e contadina, quando non si voleva fare semplicemente il rosso quotidiano per l’anno successivo, ma una selezione sontuosa per il figlio che doveva nascere, per un anniversario importante, una festa, un matrimonio che nel tempo ci sarebbe stato. Un vino insomma per la grande occasione, il grande giorno, in mezzo ad una vita di fatica tribolata.

C’è in questo rosso qualcosa di massiccio, di compatto, di profondo, di antico, ma al tempo stesso di franco, di gioioso, di fisico, di traboccante e soprattutto di non mediato da intellettualità o sofismi. L’Habemus ‘12 è un grande vino diretto che vuole essere goduto, assaporato, masticato e dare così piacere.

Ma come sempre, in un giudizio critico, dobbiamo far capire meglio e, come nei buoni racconti, fare dunque un passo indietro. Perché il progetto San Giovenale parte nel 2006 da una scelta di uve particolari, Syrah, Grenache, Carignano, Cabernet Franc, Malvasia Nera. Una fittezza di 11.000 ceppi per ettaro coltivati ad alberello per appena 6.000 bottiglie prodotte su 6 ettari di vigne.

Mille bottiglie ad ettaro che sono sicuramente un sacrificio, una bassezza di rese, una selezione che io non mai visto, se non qui, con nessuna mezza misura e compromesso.

Lecito allora che da queste premesse le aspettative (almeno le mie) siano elevate, molto elevate. E allora, pur avendo questo rosso il punteggio più alto (seppur condiviso) tra i vini della regione, avverto anche il suo carattere di opera aperta, che molto, con una maggiore età delle piante, una più precisa messa a punto delle uve, dell’uso dei legni, dei passaggi di cantina, può ancora crescere, acquisendo più eleganza, più sfaccettature, più sottigliezze nel ventaglio olfattivo e magari diventare così (che possa questo essere di augurio) uno dei dieci più buoni rossi d’Italia (e dunque del mondo).

C’è però un’ultima cosa che vorrei ribadire, che è quel sottile e felice senso di spaesamento che ho all’improvviso provato nell’assaggio dell’Habemus ’12, la sensazione cioè di ritornare ad un passato remoto, ma sereno, rassicurante, a qualcosa di antico e giovane che ci è sicuramente appartenuto, in un tempo più o meno lontano. E non mi pare affatto poco.

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