Casa Raia

Brunello di Montalcino 2008     93-94

Brunello di Montalcino 2009     93

Rosso di Montalcino 2010   91

Rosso di Montalcino 2009   91

“Pensi che il mio primo viaggio a Montalcino l’ho fatto nel ’74”.

“Io sono nato nel ’75”.

Può giungere anche una coltellata del genere al sedicente giornalista esperto (e così inevitabilmente anziano), sciorinante di chiacchiere sul privato, quando si entusiasma ad un nuovo vino. E comunque questo è stato l’inizio della mia conversazione telefonica con Pierre-Jean Monnoyer, giovane autore dei Brunelli di Casa Raia, il nome nuovo scoperto a Benvenuto Brunello 2015 (162 assaggi di fila, con le ultime tracce frontaliere di purissimo smalto lì lì per sbriciolarsi e lo spettro angoscioso di un ineluttabile futuro in dentiera).

Ma, al dunque, chi se ne importa, quando si scopre un vino così. Parlo ovviamente del Brunello 2010 (come tutti gli altri 161, ad eccezione di qualche sporadica Riserva 2009), che mi si presentava davanti in una sarabanda di grandi impressioni (ma questa vendemmia a Montalcino ha dato luogo a risultati complessivamente superbi. Il prossimo anno sarà poi il turno della Riserva 2010. E insomma avremo da parlarne assai).

Brunello Casa Raia 2010 allora, con un magnifico colore granato profondo, che si staccava dagli altri per due marce in più in eleganza di respiro, in finissime suggestioni olfattive, tutte su toni di vastità, di morbidezza, con lunghe creme preziose su un ventaglio di profumi che continuavano a crescere. E al tempo stesso provavo anche la sensazione di essere davanti, come dire?, ad un vino colto, estremamente raffinato, lungamente conciato e cesellato nei legni, ma tutto con sapienza, con gusto estremo, rara perizia e insomma con una forte sensibilità consapevole, a sfiorare una serena impressione di classicità.

Un grande rosso in cui si combinavano la vocazione della vigna, la sapienza dell’uomo e la sua propensione estetica all’arte. E vini di questo genere mi intrigano all’infinito, perché sono un passo in più affinché il risultato non sia una mera sommatoria casuale (e appunto difficilmente ripetibile poi) di elementi positivi. In questo Brunello c’era pienamente la fattiva mano dell’uomo, assieme lieve e forte come può essere un’idea, ed al tempo stesso la naturale, strutturale perentorietà del frutto ed ancora, su questo e intriso in questo, la bellezza dei legni, scelti appunto e selezionati dall’uomo perché siano i più preziosi ed assieme i più garbati e gentili, dentro cui far vivere, respirare, dormire e crescere il proprio vino migliore, in un tempo da decidere senza il minimo errore, in una simbiosi delicatissima di aromi in divenire e, proprio per questo, straordinariamente complessa.

Insomma non mi stancherò mai di ripetere che il grande vino è un’opera travolgente, sempre infinitamente complicata, difficile, ma appunto dell’uomo. Dell’uomo che pensa, valuta, sceglie, incide necessariamente la materia più nobile e così la costruisce e la plasma a sua immagine, cuore, gusto e pensiero.

Il Brunello 2010 Casa Raia andava precisamente in questa direzione, presentando tutti i requisiti della superopera radiosa, meditata e appunto cosciente.

Inutile dire che scattava qui la curiosità di avere notizie, capire chi fosse l’autore, dove fosse la vigna. Appuravo così in quella giornata decisamente caotica il nome del produttore (che non conoscevo), che il Brunello che avevo assaggiato era un campione di botte (ed è questo il motivo per cui non appare nel punteggio. Ma l’imbottigliamento è ormai imminente e conto di ritornarci sopra in autunno, quando il vino avrà fatto qualche mese di vetro). C’era però l’indirizzo ed il nome del Podere a darmi una scossa di memoria con quel suo nome, Scarnacuoia, in sé non poeticissimo, ma anzi di una truculenza tanto forte da risultare davvero non dimenticabile.

Potevano essere dunque i primissimi anni Settanta. Le Schede di Veronelli che uscivano su Epoca. Mia cugina, abbonata alla rivista, che me le raccoglieva.

La scheda su Montalcino la sapevo a memoria, per quante volte l’avevo letta. I grandi cru elencati, Pievecchia, Pievecchina, appunto Scarnacuoia. Poderi selezionati a suo tempo da Tancredi Biondi Santi, ad indicare dove il Sangiovese aveva dato i suoi risultati più profondi.!cid_AF302A2F-D996-467D-9A6F-EC99512D48F2

Facciamo adesso un salto lungo più di quaranta anni. Ed ecco dunque la storia e la foto che potete vedere della vigna di Scarnacuoia oggi, che mi dà un senso rassicurante di continuità sulle generazioni che trascorrono, sulla vita che continua oltre noi con una sua imperturbabile tranquillità e un testimone del vino che passa di mano in mano in un incredibile gioco di destini ed anche in un fondersi di culture che sono la manna per la crescita e la grandezza di un territorio (per quei 2-3 lettori fedeli ne parlavo in Montalcino 2009, 2008 … a proposito di melting-pot).

Ma prima ci sono due antefatti da fissare. Il secondo, cronologicamente, è del 2003. E siamo davvero in lontanissime terre d’oltremare, a Dali, l’antica capitale cinese dell’Impero Bianco. Lì Pierre-Jean Monnoyer gestisce il bar ristorante Blacklodge, dove entra una giovanissima e splendente Kalyna Temertey, appassionata ceramista, che sta compiendo in solitaria il suo tour nella Cina più remota a studiare antiche porcellane.

Il colpo di fulmine scocca in quel momento, tanto improvviso, quanto perentorio e travolgente (Kalyna del resto è davvero bellissima). E i due ragazzi da allora non si lasceranno più.

Ma tutto comincia ad agganciarsi adesso alla nostra storia, perché la madre di Kalyna ha acquistato il famoso Podere Scarnacuoia già nel 1997 (ed è appunto l’altra data). L’Italia e Montalcino sono da decenni il luogo di vacanza per lei e i suoi figli. Il casale in abbandono è stato intanto progressivamente restaurato, mentre la vigna è stata data in affitto fino al 2005.

Tornati dalla Cina, Pierre-Jean e Kalyna hanno deciso ormai di vivere a Montalcino. Progettano il loro Brunello su quella storica vigna impiantata nel 1975 intorno ai 400 metri di altitudine, ad un chilometro dal paese, e di dare così vita ad un’agricoltura naturale, in pieno equilibrio con la terra. Imparano intanto per tutti quegli anni a fare il vino e a seguire la crescita delle piante in vigna da Lionel Cousin (Cupano), da Francesca e Margherita Padovani (Campi di Fonterenza), da Yann e Carolina Erbach (Pian dell’Orino).

Quando nel 2006 i due giovani possono riprendere possesso del loro vigneto, sono orientati decisamente ai dettami dell’agricoltura biologica, convertendo il terreno man mano al biodinamico. Viene così bandito ogni prodotto chimico, il suolo è nutrito e rigenerato soltanto con coltivazioni di piante organiche e fiori. Ogni vite (parliamo di poco più di un ettaro) è lavorata accuratamente a mano, seguendo anche nelle potature i cicli lunari. Si ricerca la biodiversità di quella loro vecchia vigna e la naturale, particolare saporosità dei grappoli che vi nascono. Siamo nel versante nord-est di Montalcino, dove il Brunello nasce più duro e crudo, con un’acidità maggiore e con l’altitudine ad assicurare un profluvio di aromi. Un Brunello dunque dal carattere forte, statuario e longevo, da saper appunto plasmare,levigare.

Quando, nel 2009, viene portata a termine la cantina nei locali del casale, scelgono botti, barrique e tini di rovere del Taransaud, certificati da alberi di almeno 150 anni.

La selezione dei legni è fondamentale. Pierre-Jean Monnoyer va ormai elaborando un proprio stile e sa che dentro quei legni lascerà trascorrere al suo Sangiovese molto più tempo di quanto non dica il Disciplinare.

Il lavoro di vigna assicura un grande patrimonio organolettico. E in cantina si prosegue sul corso della naturalità assoluta. Le fermentazioni sono innescate nei tini di legno solo da pied de cuve di lieviti indigeni. I tempi di macerazione sulle bucce possono arrivare anche ad un mese. Dopo i travasi, i vini scendono nelle botti da 30 ettolitri dei freschi locali sotterranei, appunto progettati con bocche d’aria nel pavimento, a mantenere umidità e temperatura costante, con una circolazione che evita ristagni e muffe.

Dunque sanità delle uve, dell’ambiente, dei locali. Poi tempi assai lunghi nei legni, che, come abbiamo visto nel Brunello 2010, sono ormai di 4 anni e mezzo.

Riferiamo dunque dell’assaggio dei vini imbottigliati. Appunto Brunello 2009 e 2008, poi Rosso di Montalcino 2010 e 2009.

Assaggiati in contemporanea, i due Brunelli apparivano già al colore con le stimmate diverse delle due annate. Bellissimi e sostanziosi entrambi, il 2009 (frutto di un’annata più difficile e con qualche pioggia) mostrava una tonalità di granato più matura, mentre il 2008 (annata più equilibrata ed importante) era di una gradazione più cupa e profonda.

Differenze poi anche al naso. Il 2009 svettava immediatamente in toni raffinatissimi di confettura intrisi di grafite, tartufo, goudron. Tornava la sensazione complessiva del 2010 assaggiato, con la riconoscibilità del cru e lo stile del suo autore. Ma qui il vino, in un’annata meno importante e con un suo primo, fondamentale affinamento nel vetro, appariva meravigliosamente articolato ed espresso, dichiarato. Certo non era all’apice, potrà ancora crescere per anni, ma la composizione degli aromi era superba ed in un delizioso equilibrio incantatorio. Così come la bocca ad offrire spettacolari dolcezze minerali, lunghissime persistenze in una gustosità straordinariamente appagante ed in un raro senso di eleganza.

La 2008 presentava inizialmente un quadro più chiuso, se vogliamo, non totalmente nitido al primo scendere nel bicchiere. Ma è un Brunello più carico, più folto, più concentrato, che merita ancora altro tempo di bottiglia. E a chi vuole assaggiare adesso questo vino straordinario consigliamo di dargli almeno quei 10-15 minuti di tempo nel calice ed il vino comincerà così a proiettare attorno a sé lame di deliziosi profumi di frutto su bordi fittamente catramati in una sequela di straordinarie impressioni calde, vellutate, dolci, in cui questo Brunello svela la sua intensa voluminosità, la profondità, la bellezza virile, solida. Grandissimo rosso insomma, pieno di cuore, più lungo e largo nella trama rispetto alla 2009, più vasto e grasso, di struggente saporosità. Gioiello del versante settentrionale di Montalcino, dove le vendemmie sono più tardive rispetto al versante meridionale, in cui si aspetta lungamente la perfetta maturazione, arrivando così ad un grado alcolico importante, ma con uve che mantengono nello stesso tempo un’alta acidità fissa. Un patrimonio che è un vero e proprio diamante da saper sgrezzare nella sua durezza. Da qui i lunghissimi tempi in legno sostanzialmente nuovo ed il vino che inizia così ad ammorbidire i suoi spigoli e li ammanta di straordinarie ed infinite preziosità aromatiche, che sfumano nelle creme. Tutti vini poi fortemente integri. Ognuna di queste bottiglie (tranne una di cui dirò) è stata riassaggiata nei giorni successivi nella parte rimasta (non tantissima per la verità) con impressioni superbe e senza che nei vini ci fosse un filo di cedimento. Ma anzi si aprivano in un’ulteriore crescita ed espansione di aromi.

Arriviamo così ai due Rosso di Montalcino, che nascono da uve della stessa vecchia vigna (l’età oggi quarantennale delle piante è un altro valore fondamentale nella grandezza di questi vini), con differenze davvero minime, vista la cura che su questo ettaro e 22 si può avere pianta a pianta, grappolo a grappolo.

Medesime dunque le fermentazioni nei modi e nei tempi. Questo vino però viene poi posto in barrique del Taransaud, dove riposerà e si evolverà per 2 anni. Proprio perché il Rosso va commercializzato prima, viene qui utilizzato il legno piccolo, che tende a far maturare il vino in modo meno lento.

Ma nell’aprire i due Rossi ho verificato come sostanzialmente l’idea e la filosofia del vino fosse la medesima, con la stessa espressione di un frutto prezioso e maturo, vasto, complesso, molto importante, carico di seduzione. La dicitura Rosso di Montalcino (che generalmente indica un vino più immediato, fresco e sapido, generoso) aveva tratto in inganno anche me, con tutta la mia prosopopea di vecchia volpe sparata del Brunello.

Il Rosso 2010 è stato dunque il primo che ho sentito e l’ho bevuto a casa di amici.

Un’imperdonabile leggerezza. Sicuramente non ritenevo fosse così importante e sono stato invece lì a rimirarmelo e a sentirlo per una buona parte della sera, per quanto andava crescendo nel bicchiere. I profumi continuavano a dilatarsi in un quadro ed un respiro di bellezza alta, translucida, minerale. C’era in questo Rosso una durezza appena più pronunciata. Appariva come più fresco, concentrato, bisognoso di bottiglia. Ma sicuramente, dovendolo bere oggi e ora, meritava di essere posto in caraffa, si doveva insomma sicuramente ossigenare, aprire. Già sprigionava spigoli lucentissimi di profumi incantatori, che crescevano in frutti e vaniglie appena al loro primo strato. C’era però sicuramente altro che doveva ancora emergere, ma l’incontinente golosità degli amici aveva ormai prosciugato la bottiglia. Probabilmente nel mio intimo li ho pure maledetti. Il danno comunque era fatto, con un unico colpevole. Il punteggio che potete leggere ritenetelo così solo approssimativo, è quello del suo primo approccio, in un’annata, come detto, fantastica a Montalcino. Spero comunque di avere modo di tornarci su e fare ammenda.

Il Rosso 2009 invece l’ho assaggiato in casa, ovviamente con tutti i crismi e le comodità del caso, lungo un arco di 2 giorni. Ed è stata l’ennesima conferma di come anche in un’annata meno importante, lavorando in questo modo, si possa offrire un vino spettacolare, delizioso e complesso, vanigliato, finissimo e contemporaneamente pieno, alcolico, molto ricco, ed assieme di tessuto e velluto vibrante, con un’acidità fresca, scattante a dargli forza, fermezza di impalcatura e vita.

A distanza di 24 ore poi il vino appariva ancora cresciuto, ai profumi si aggiungevano splendidi lampi goudroneggianti, che arricchivano di grandiosità il naso. La bocca si manteneva compatta e sfumante tutta nella dolcezza, nella preziosità più raffinata. Molto più di un Rosso e sicuramente un grande vino. Da provare senza indugi, come i suoi fratelli. Ed una piccola azienda che pochi conoscono ed a cui auguro tutta lo fortuna possibile, per il lavoro che stanno facendo.

Però una considerazione va fatta a questo punto, più generale. Ed è sui vini biologici.

Confesso di non essere un dottrinario. Le varie e alterne fortune di quello che ho visto, sentito e fatto in questo arco non breve di vita mi hanno portato ad essere assai cauto nelle dottrine e nelle fedi. Vivo di non certezze, se non nella riprova concreta di quello che sento e verifico più volte.

Venendo al vino, mi interessa la qualità, l’altezza e la bellezza del risultato. Per onestà intellettuale, non credo che un vino mi debba piacere di più o di meno in base alla via enologica scelta dal produttore o dall’enologo (o, peggio, alla simpatia o antipatia di questo o quel personaggio).

Però c’è un fatto che emerge sempre di più in questi miei anni, con migliaia di assaggi e parecchi anche alla cieca. I vini biologici possiedono, a mio avviso, un guizzo in più in ricchezza di profumi, in sostanza e qualità alla bocca, in sensazione di pienezza, in integrità di sapori, in dolcezza di persistenze. C’è in essi una verità di vigna che li rende particolarissimi ed unici.

Certo seguire i faticosi dettami del biologico non basta e non è tutto. Se non si è bravi come produttori, come autori di vino, se non si ha gusto, percezione del bello e del buono, c’è ovviamente il rischio di fare vini sepolti, difettosi, ossidati. Ma quando c’è sapienza, capacità, arte, questi vini dimostrano una bellezza, una radiosità, una gustosità assolutamente superiore.

Questa la mia doverosa testimonianza e credo che tutti i piccoli e medi produttori, che sono l’ossatura forte del miglior vino italiano, un pensierino sopra dovrebbero pur farcelo, perché gli anni a venire vedranno sempre più competizione nel mondo. E credo che il nostro futuro sia riposto decisamente nella fascia di quei vini grandissimi, particolari, irripetibili. La diversità dei nostri suoli, la straordinaria ricchezza in vitigni, la vocazione del clima direi che quasi ci obblighino ad appartenere e a crescere su questa fascia altissima.

Saremo presto invasi da vini medi, tecnicamente ben fatti, da un certo punto di vista ineccepibili, di nuovi produttori dell’intero orbe terraqueo. Credo così che una viticoltura biologica possa aiutare a comporre quell’ulteriore gradino di vertice, quel passo in più che il miglior vino italiano merita e su cui può ancora compiersi il salto decisivo.

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