Grandi Montepulciano d’ Abruzzo

villa-s-mariaOnorate i padri. Potremmo per una volta iniziare anche così, un po’ sul solenne. Visto che il Montepulciano d’Abruzzo devo averlo avuto negli occhi e nella mente da quando sono nato. Un paese della Val di Sangro ha dato origine a tutto quello che sono, ad entrambi i miei genitori e non so a quante generazioni alle loro spalle.

Non un paese di contadini, ma di uomini che da secoli emigravano e andavano in case nobiliari ad elaborare cibo. Una scuola che è passata, di mano in mano, di bocca in bocca, da padre a fratello, a figlio. Una sequela di scèf e monsù alle mie spalle e poi pasticceri, comì, mètr, maggiordomi, con i loro racconti che nelle case del paese si tramandavano per generazioni, di ville e dimore favolose, di pranzi memorabili, di feste infinite, di matrimoni, disgrazie, suicidi.

Alcuni vivevano soli oltreoceano, accanto a ricchezze che a loro non appartenevano, dentro palazzi, ambasciate, regge, dove creavano piatti ogni giorno, preparavano ricette, studiavano varianti. Tornavano a Villa (perché Villa Santa Maria è il paese di cui parlo e Villa nel mio immaginario da sempre significa questo) a vedere per la prima volta il figlio generato nell’ultima vacanza e ripartivano in nave, finite le ferie, per altri anni in terre d’oltremare, lasciando la moglie nuovamente incinta.

I più bravi, i più fortunati e contesi, avevano buoni stipendi, che spedivano regolarmente per la famiglia, per la casa. E poi magari il podere in campagna, un po’ di terra, un po’ di vigna e lì una piccola costruzione ad un piano, con il tetto in coppi di terracotta. Era più un ricovero di attrezzi che altro, ma al suo interno, immancabile, c’era la cucina a legna, a diversi fuochi.

Nel pieno dell’estate i nobili lasciavano le loro città per gli alberghi di Montecarlo, Venezia, le località termali d’Europa. E lasciavano liberi i loro scèf, che tornavano a Villa. Molti di questi venerati monsù si ritrovavano così nel paese. E partiva allora anche una sotterranea sfida. Ognuno di essi invitava gli altri nel proprio podere per un pranzo all’aria aperta. Ovviamente ogni partecipante portava un piatto, in rari casi già pronto, molto più spesso da elaborare e cuocere in quelle cucine con forni a legna di fortuna.

Ogni piatto (parliamo di quella che era una complessa cucina internazionale e francese in particolare, non semplice da preparare al meglio in quelle condizioni) veniva poi vagliato, assaporato, gustato con attenzione da tutti. In apparenza anche informalmente, dentro un’atmosfera lieta in superficie, come poteva essere in fondo una rimpatriata tra vecchi amici (spesso anche imparentati) che di rado riuscivano ad incrociarsi, piena così di racconti e ricordi dei loro anni.

Però a quel punto sbagliare una salsa, un piatto, un sufflè che si afflosciava e cedeva, una carne mal cotta, diventava un’onta che metteva in discussione l’onore, la fama e interi anni di lavoro.

Se ne parlava poi nelle case e nel caffè del Corso per giorni interi, tra sorrisi e scuotimento del capo. Con il malcapitato autore a trascorrere belle notti insonni, a riflettere su quanto era accaduto, sulle circostanze e gli eventuali errori commessi, le concause irreparabili. E a meditare un nuovo piatto che stavolta avrebbe strappato gli applausi nella più prossima delle occasioni, tra una settimana, in un altro podere …

Mi ricordo, bambino, nella casa di Villa dove trascorrevo ogni estate, che osservavo vecchie foto del primo Novecento con queste vaste comitive che sorridevano nel farsi ritrarre, attorno la campagna nel suo tempo di maggior rigoglio, gli uomini ben vestiti, con grossi baffi neri e quasi tutti un po’ su di peso.

Mio padre me li indicava, quando li riconosceva, con il loro nome. A volte lì c’era anche qualche lontano parente. E in una foto vedevo mio nonno che troneggiava, giovane e sereno, elegantissimo e mastodontico.

Ai loro piedi, tra l’erba, spuntavano le linee curve di fiaschi e bottiglioni. Era il vino dei poderi. Ma qui, nei racconti che avevo sentito, non c’erano mai state particolari sfide. Il vino certo si beveva in quelle occasioni, però nella loro cultura la parte nobile e sacra non era rappresentata dal vino, ma sicuramente dal cibo. E così tutta la sua elaborazione. Probabilmente per questi che erano grandi professionisti del settore, obbligati a sfibranti, quotidiane ore di lavoro in fumanti cucine caldissime, davanti ai fuochi e ad una miriade di pentole, tegami, casseruole e forni roventi, in opere di precisione assoluta e di millimetrico controllo su una numerosa brigata di lavoranti, il vino e l’alcol erano cose da tenere assai alla larga, quando non da bandire proprio.

La morfologia poi di Villa, ai piedi del picco roccioso della Penna, che portava ombra sin dal primo pomeriggio, non rendeva il suo territorio adattissimo a quelle complete maturazioni, indispensabili per le uve. Il rosso che qui veniva fuori era aspro, tannico e acidulo e, secolarmente, veniva aiutato da una parte del mosto, che si metteva a cuocere nel grande paiolo di rame, ottenendone un concentrato da aggiungere al tino in fermentazione, ad aggiustarne il risultato finale.

Era un vino curioso da bere, con odori più o meno forti di affumicato, cui bisognava abituarsi, farci il naso e la bocca. Ne ho un lontano ricordo fino agli anni ’60, quando questi rossi stavano ormai già sparendo, nella mutazione sociologica epocale in pieno atto, ma che era ancora possibile trovare.

Non vini immortali insomma. E se sono rimasto astemio fino ai 22 anni qualche ragione dovrà pur esserci. Ma mi ha lasciato sempre pensare il fatto di essere il risultato di una famiglia che per secoli ha visto i suoi figli maschi lasciare il paese a 10 anni, per lavorare e apprendere il mestiere dentro cucine caldissime e fumose, tra ordini, urla e schiaffi, prepotenze di uomini grandi dai lunghi cappelli bianchi. Ma scalandone via via il mondo e vedendo comunque sempre nel cibo la cosa più nobile che esiste e la sua preparazione come una vera e propria arte da conquistare. Fino poi a me, che nato e cresciuto in città, nella fortuna di un dopoguerra dall’economia totalmente diversa (per dirla guccinianamente il primo che ha studiato), che si appassiona al vino dopo l’università, vi dedica una certa energia e parte della vita, ne studia il cammino, i passaggi, le variabili complicate e diversissime della sua elaborazione, dalla vigna al bicchiere, fino ad intravedervi dinamiche, similitudini, caratteri, passioni completamente umane e a ritenere che questa bevanda al suo meglio e poi il completo, consapevole atto di coglierla nel calice, annusarla, assaporarla, gustarla, sia il vero, autentico aspetto spirituale del pranzo, qualcosa che va oltre, che ci distingue da ogni altro essere in natura e ci separa dalla barbarie. Mentre il cibo invece (ma, tranquilli, ne faccio uso, e talvolta esagero pure) sia in fondo solo la sua parte e base materica, corporale.

Insomma un ribaltamento culturale e di civiltà, che, credo, abbia appena iniziato a riguardare il nostro paese. Perché nella nostra storia nazionale il culto del cibo c’è sempre stato, anche sacrale visto che spesso mancava. Ma il sentimento del grande vino (sarà doloroso, è bene però dirlo subito) non è invece mai esistito nel passato che ci appartiene. Parlo di una cultura diffusa, profonda, estesa nel popolo, parlo del rispetto e della coscienza avvertita e piena del vino importante, articolato, complesso.

Non so nemmeno quante migliaia di biotipi di vitigni abbiamo perduto e soppresso nei secoli, viti spiantate e gettate a bruciare nel camino perché producevano troppo poco, che mal si adattavano alle esigenze di una civiltà che voleva una bevanda generosa e a basso costo. Il vino era il compagno quotidiano e andava bevuto e finito entro l’anno. Le pratiche enologiche del resto non permettevano di conservarlo troppo a lungo. E spesso si mischiavano tutti i vitigni che si possedevano in vigna, a bacca bianca e rossa.

Ricordo ancora di aver visto produttori vendere direttamente il vino dalla botte, che per settimane si andava via via scolmando e crescendo contemporaneamente in volatile fino a quell’odore forte e deciso di spunto, con i batteri acetici che contaminavano i legni nel profondo (ma del resto lo avevano già fatto per decenni).

Insomma il vino non era una cosa importante. Tutto qui. E credo che il nostro passato sia ricolmo di equivoci e sciagure enologiche. Ma non è ormai nemmeno il caso di stare su a farci processi o addossare colpe. E’ quello che è accaduto (ci saranno magari state storicamente anche isole e fasi diverse e più felici). E’ quanto siamo stati ed il cumulo di una storia che comunque ci si è sommata addosso, il frutto di una povertà diffusa da per tutto, nella mente e nel corpo, che oggi difficilmente riusciamo a concepire, di condizioni culturali e sociologiche abissalmente diverse e assai complicate, quando non tragiche.

Lo stesso Montepulciano (e ci arrivo finalmente) è stato reimpiantato dagli anni Sessanta in poi a tendone, per moltiplicarne la produttività. Con la pianta che doveva dare così molte decine di chili d’uva.

Si voleva puntare a fare qualità? No di certo

Inevitabilmente così nei primi anni ’70 ho iniziato ad appassionarmi di rossi da Nebbiolo e da Sangiovese, perché proprio in Piemonte e in Toscana era finalmente decollata questa idea della qualità (e allora soltanto in una sparuta pattuglia di produttori).

Ma nelle Langhe si era più avanti comunque di parecchi decenni. In un’altra delle memorie di famiglia c’è il racconto di mio zio, giovane scèf alla fine degli anni ’30 in questa regione, che aveva lì visto sempre vendere il vino, in qualsiasi locanda o bottega, con sopra il nome del vitigno. E favoleggiava così di bottiglie di Freisa o Dolcetto, Grignolino, Brachetto, Barbera, con le selezioni migliori e più pregiate che riportavano sin da allora anche il nome della vigna. E raccontava alla fine di Barolo, di Barbaresco. Ne parlava con ammirazione e nello stesso tempo gli pareva strano, perché a Villa, nella vigna del padre, avevano sempre mischiato tutto.

Anche nella storia appunto non si fanno salti. C’è un tempo di sedimentazione, di apprendimento necessario e poi di crescita. Il ritardo non si recupera in pochi anni. Il nuovo vignaiolo ha bisogno almeno di una generazione ed anche poi, oltre l’intelligenza, la capacità e la voglia di intuire e rischiare, di piante il più possibile mature.

Quasi tutte le etichette di Montepulciano che hanno iniziato a colpirmi 20 anni fa nascevano appunto da vigneti a tendone, che grandi pregi non ne potevano avere, ma già con un’età che in taluni casi si calcolava in decenni.

I nuovi produttori che si andavano segnalando potavano ora più corto, il carico d’uva era decisamente più basso e cominciava così a venire fuori il carattere di un vitigno dalle incredibili possibilità, cui era stato sempre e solo chiesto quantità, straziato in ogni vendemmia da rese spaventose, da smodati carichi di uva, dentro cui tutto si diluiva e rimaneva in nuce. Ma che aveva retto comunque con caparbietà e generosità sincera, paziente. E iniziava ora a mostrare un mondo fisico completamente diverso e chiaroscurato, intenso, dai fitti colori impenetrabili, che erano già il segno di una poderosa, prima rivincita, dopo un obbligato, lunghissimo tempo in cui le sue virtù erano state come non richieste e così frustrate, ignorate, rimanendo dunque sepolte.

Adesso invece, da piante con un carico assai minore di uva (e con un’età che portava naturalmente a produrre meno), facendo maturare completamente i frutti, arrivando nelle vigne più alte a vendemmiare a fine ottobre, in taluni casi ed annate giungendo anche ai primi di novembre, si otteneva un mosto denso, impenetrabile, che tracimava di profumi, che donava via via un frutto grasso, impetuoso e imponente, che andava a dominare in crema la forza ed il peso strutturale e vivido dei suoi forti tannini. Si andavano affacciando così vini profondi, in taluni casi ciclopici, sicuramente ruvidi appena svinati, materici, ma con un lunghissimo tempo di lenta, graduale evoluzione davanti. Da saper dunque educare nei migliori legni, a crescere, a studiare, ad elaborare sostanze e aromi inediti. Ed a variare in un diapason di oscillazioni, che all’inizio lasciavano stupiti gli stessi produttori.

Ricordo il racconto di molti di essi a metà degli anni ’90, del senso di meraviglia che provavano davanti a selezioni di tale superba intensità e di come crescevano essi stessi come degustatori accanto ai loro vini, assaggiandoli e confrontandoli con gli altri nuovi rossi italiani.

C’è stato dunque in Abruzzo, tra i migliori produttori, un tempo di studio, di prove e di scoperte, poi man mano di consapevolezze sulla forte originalità espressiva del Montepulciano. E come e quanto, su queste migliori selezioni, il legno nuovo aprisse scenari e ventagli olfattivi sorprendenti.

Confesso il mio stesso stupore (quando ancora viaggiavo) nell’assaggiarli dalle barrique, in piena evoluzione e, più che generosi, monumentali, travolgenti, tracimanti di frutti neri di rovo, profondi, inchiostrati, con tutta la loro serie di varianti offerte dai terreni, altitudini, tempi di raccolta. E sono ancora più convinto che anche su questo vitigno il risultato estremo lo si colga tardi, quando in vendemmia si sappia (e l’andamento stagionale consenta di poter) aspettare, riuscire così ad attendere che le uve “chiudano” ancor di più, raggrumino l’intensità del loro frutto, ammorbidiscano con linfe gliceriche la forza virulenta dei tannini, poi la concentrino fino a quella maestosità viperina che segna e rende unico il Montepulciano.

Si era ormai consapevoli che l’impianto a tendone non poteva offrire il massimo risultato. Ed erano partiti così anche i primi filari a basse rese. Ma l’età è sempre poi dirimente. Se la pianta non supera quei 12-15 anni, non riesce mai a dare risultati realmente profondi. Così, ogni volta che assaggiavo, nella stessa cantina, la barrique di Montepulciano da vecchio tendone, confrontandola con quella da filare giovane era evidente la differenza. Nonostante tutto, il vecchio tendone dava inevitabilmente e comunque un vino più complesso, più articolato, emozionante.

Ma il tempo è appunto galantuomo, anche se non con tutti. Certamente mette sotto, accascia e travolge noi uomini. Con le viti però sa essere assai più magnanimo, facendole crescere ed evolvere in un continuum di generosa gentilezza. E rendendo possibile che, quando queste sono assai in là con gli anni, invece di decadere, abbiano la forza e il pregio di generare i loro frutti migliori. Anzi, se mantenute costantemente a basse rese, senza essere sfiancate da un eccesso di lavoro, possano continuare a farlo per molti e incredibili decenni, aggiungendo sempre ai loro vini un imperscrutabile quid di bellezza, complessità, saggezza, profondità.

E’ strano come le vecchie piante non diano niente di vecchio. Il loro frutto non presenta alcuna ruga, è privo di qualsiasi stanchezza e diventa, ad ogni vendemmia che passa, sempre più dolce, più concentrato e consistente, più deciso e radicato. Come se possedesse più energia, più massa, più linfa avvolgente, assieme alla densità di un maggior numero di elementi e sostanze nobili, tanto profonde, concrete e reali da rimanere poi giovanissime per molto più tempo. In qualche misura è come se la vite vecchia contenesse dentro di sé più esistenza, con la memoria di tutte le sue vendemmie precedenti, appunto così più ricordi e dunque più conoscenze, più bellezza, più pensiero, più saggezza e più sostanze complesse da offrire.

Quello che all’uomo (indebolendolo così) man mano fa sottrarre dal corso degli anni, la natura e il tempo invece nella vite lo imprimono e lo sommano, lo addensano e lo moltiplicano nei suoi frutti. Questo è il beneficio che regala e che rende grande, articolato ed irripetibile poi il vino che nasce dalle sue piante più mature. Una gioia e un’esperienza straordinaria, che variamente si esprime in tutte le diverse varietà.

Ma, nascendo appunto da piante vecchie, il Montepulciano d’Abruzzo rivela ancora meglio il suo superiore patrimonio e l’equilibrio tra forza colorante degli antociani e ricchezza dei suoi altri polifenoli, in un incrocio armonico (che è la sua vera originalità) verificabile in un meraviglioso colore violaceo, impenetrabile, che, al contrario che in altri vitigni, qui rimane stabile con incredibile fermezza per decenni, ad indizio di una giovinezza di frutto e di sapori difficilmente superabile da altre varietà.

E’ una combinazione davvero rara, che si manifesta quantitativamente in un superbo estratto, ma che non è altro che una qualità ed energia di principi nobili dall’altissimo profilo, pieni di cremosa, estrema dolcezza, assieme da un generoso corredo alcolico che si vanno così a sommare.

C’è, a mio avviso, ancora un grande tassello da indagare e comporre (argomento che riguarda tuttavia il nostro intero parco di vitigni autoctoni), dei cui frutti godranno, più che i figli, credo, i nostri nipoti. Parlo di una ricerca clonale approfondita, con il possibile recupero di quei biotipi di Montepulciano dal frutto più spargolo, a grappolo e acino piccolo, che ancora sopravvivono in qualche sparuta, vecchissima vigna. Catalogarli e poi moltiplicarli nei vigneti sarà il compito del futuro, valutarne tutte le sue possibili dinamiche e traiettorie.

E’ assai probabile che ogni nostra varietà autoctona, pilotata negli ultimi secoli a produrre tanto (ed estirpando così quei biotipi meno generosi e che avevano molto probabilmente un dna qualitativo superiore) si porti dentro anche un peso ed una zavorra, un’amaritudine, un senso di materico, che può limitarne ulteriori picchi. Ed un lavoro a ritroso, a ricomporre e ritrovare quello che c’è stato, appare oggi lungo, complicato, difficile, costoso. Credo tuttavia che qualcosa si possa fare e ho fiducia che si farà, creando allora vini su cui ci sarà verosimilmente molto altro da dire e da scrivere.

Ma il presente è adesso ed abbiamo comunque già diverse etichette di Montepulciano d’Abruzzo spettacolari ed anche con vigneti a filare ormai in una prima, buona maturità.

I risultati dunque si vedono, con rossi meravigliosi di cui stiamo per parlare e che ritengo in assoluto e pongo serenamente tra i più grandi d’Italia. Anche se con un’attenzione di stampa che, con un eufemismo, ritengo un pochino modesta e su cui il nostro giornalismo del vino non ha trovato il tempo per scrivere altre pagine immortali, frutto delle sue magnifiche e formidabili penne, cui nulla può sfuggire.

Ma del resto è bene che ci sia una totale libertà di gusto e di pensiero, anche di ritenere che il risultato delle seconde scelte di uve, che hanno maturato in belle botti vecchie, sia sistematicamente migliore delle prime selezioni, che si sono evolute in legni nuovi. Diciamo, non so, così è, se vi pare … E la finiamo qui, tranquillamente.

I Montepulciano che ho scelto sono dunque ed ovviamente quelli che più mi hanno convinto e intrigato in tutti questi anni di lavoro, che ho seguito, si può dire, dalla loro prima vendemmia, che esprimono una forte territorialità e la plasticità straordinaria di un vitigno che sa essere grande e nello stesso tempo magnificamente vasto e diverso nelle vigne che dominano l’Adriatico, immerse dentro una solarità diffusa e sorridente, poi in quelle più interne, a mezza costa, e infine su quelle più alte, alle falde dei monti, dove appunto per la maturità piena e completa dei grappoli si può arrivare a vendemmiare nella prima decade di novembre.

C’è sempre un filo conduttore a unirle, che è nel carattere di forza guerriera del vitigno. E nello stesso tempo l’impronta digitale del sito crea ed imprime uno spettro aromatico e di sapori non ripetibile altrove. Similare appunto nella generosità, nella varietalità che mantiene la sequenza di antichi tratti virili, con il timbro poi dei suoi profumi, il diapason della sua frutta, che, quando il grappolo è ben maturo, va sempre più verso le more di rovo, i frutti neri, poi il sottobosco, le bacche, il tartufo, il tabacco, l’inchiostro in un finale di goudron superbamente possente e vasto.

Ma perché tutto questo si articoli in modo armonico è, a mio avviso, necessario che questo vino (come per gli altri grandi vitigni a bacca rossa) si evolva poi in buoni legni nuovi. Non c’è alcun pericolo che la barrique possa segnare o schiacciare la trama di un grande Montepulciano. La sua forza, la concentrazione di estratto, la densità, la fittezza di frutto, la generosità grassa che sa offrire questo vitigno è tale da sopraffare, giganteggiando, la forza aromatica dei legni nuovi. Ma è un vino, proprio per la massa energica del suo viluppo, che ha bisogno di tempo e modo per depurarsi e via via ingentilire e levigare i suoi tratti. Appunto nel legno e in tutto quel suo tempo cresce, si plasma, si sbozza dal marmo, si leviga, assume contorni e sfumature più complesse, più nuove ed intriganti.

I Montepulciano, pure interessanti, che ho sentito, elevati semplicemente in vasca di cemento o inox, restano, a mio avviso, in una situazione gusto-olfattiva grezza, ruvida, come privi di un necessario tempo di evoluzione e di crescita. Da un certo punto di vista mi possono anche essere egoisticamente utili, per capire la particolarità varietale del vitigno in quel sito, ma nel complesso mi appaiono poi incompiuti, fermi a metà strada, senza quel superiore momento di elaborazione e di scuola che li fa diventare completi ed adulti.

Questo il mio sincero punto di vista. Con un ulteriore considerazione, prima di arrivare a quei vini che più mi hanno emozionato, che è data dalle annate (assai diverse tra loro) poste oggi in commercio dai vari produttori di Montepulciano d’Abruzzo. Nel nostro caso abbiamo fino a sette anni di differenza, frutto di una strategia diversa per ogni azienda, ma anche di un certo isolamento tra produttore e produttore. Per non parlare poi del fatto che il termine Montepulciano d’Abruzzo indica sia il rosso base, magari vinificato solo in inox, venduto giovane e a poca distanza dalla vendemmia, che la selezione maturata in grandi legni, sia quelle poche migliaia di bottiglie frutto della migliore cernita di Montepulciano, generalmente elevata in piccoli legni nuovi.

C’è insomma sicuramente qualcosa da rivedere per dare un miglior ordine ed una più sicura chiarezza all’offerta. Parliamo poi di vini provenienti da una macroarea vastissima, che in sostanza riguarda un’intera regione. E tutto questo mi sembra il chiaro sintomo di come l’Abruzzo sia oggi ancora in una fase solo iniziale nella proposizione dei propri vini migliori. Probabilmente, quando questi Montepulciano avranno avuto tutta la fortuna ed il riconoscimento che meritano, sarà possibile anche un’auspicabile maggiore articolazione e coordinamento strategico delle varie proposte tra produttori di qualità.

Volevo però, sulla base di tutte le esperienze di questi assaggi, esprimere una piccola raccomandazione e ci ritorneremo anche sopra poi nelle schede successive. Ma ritengo che il grande Montepulciano e quelle che sono le sue migliori selezioni abbiano necessità poi di tempi molto lunghi di bottiglia. Capisco le ragioni economiche delle aziende, la difficoltà anche a disporre di grandi locali di stoccaggio. Tuttavia, nel momento in cui questo vino deve ancora guadagnarsi la fama di una piena affermazione, ritengo indispensabile, proprio per valorizzarlo seriamente, che queste selezioni siano poste in commercio quando già esprimono una buona percentuale delle loro qualità. Una presentazione anticipata alle Guide ed al mercato credo sia controproducente e non fa che rimandare, ritardando all’infinito l’affermazione di questi grandi rossi. Ed è un problema che io stesso ho avuto (lo vedremo nelle schede successive) con l’assaggio, ad esempio, dei Montepulciano 2011 e 2012.

Ora le valutazioni che faccio sono anche in punteggi ed ogni lettore può così tranquillamente leggerle e considerarle. Ma, appunto per questo, l’ordine delle schede ho preferito questa volta farlo partire dalle aziende che vendono oggi il proprio miglior Montepulciano della vendemmia più lontana nel tempo. Come minimo, doveroso segno di rispetto per il sacrificio, l’impegno, la rigorosità che tutto questo lungo tempo di affinamento rappresenta.

Un’ultima notazione sul taglio che ho dato a questo lavoro. Per la verità non lo avevo né previsto, né deciso in anticipo, ma poi, nell’assaggiare e nello scrivere, è andata così. Mi sono di fatto tanto concentrato e focalizzato sui vini da parlare poi soltanto di loro e delle vigne. E’ vero, ci sono dietro anche gli uomini ed il loro lavoro. Ma è come se in questo momento mi sembrasse necessario che il lettore innanzi tutto dovesse memorizzare il vino, le sue caratteristiche, la dimensione che il Montepulciano riesce a prendere e ad esprimere nei diversi siti, con le differenti dinamiche che così si aprono e come questo vitigno sappia dunque essere diversamente grande.

Della Borgogna conosciamo il domaine, la vigna, l’esasperata particella del cru. Molto difficilmente identifichiamo questi vini con il viso del produttore. E’ un paragone alto, lo so, ma che possa essere benaugurante per tutto il futuro dei migliori Montepulciano d’Abruzzo.

A breve la seconda parte Grandi Montepulciano d’Abruzzo-I vini

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