Diego Conterno

Barolo Le Coste di Monforte 2010  92

Barolo Ginestra 2010  91

Ovviamente sul Barolo torneremo numerose volte e con diversi produttori. Ma, oltre le etichette famose e pluripremiate, mi piaceva iniziare segnalando questa azienda nuova ed antica al tempo stesso. Perché Diego Conterno è un produttore storico di questo e degli altri vini della Langa di Monforte d’Alba, da una famiglia che coltiva qui la vite da generazioni. Assieme al cugino Claudio ed a Guido Fantino nel 1982 ha appunto fondato il marchio Conterno-Fantino, che ci ha dato negli anni e decenni successivi alcuni dei più bei vini di questo territorio.

Con il nuovo millennio Diego ha poi deciso di continuare questa opera da solo, lavorando i propri vigneti, seguendo la sua filosofia ed interpretazione dei vini di queste colline, con il figlio Stefano che gli si è affiancato dal 2009.

Prima di analizzare i suoi due migliori vini però, appena due parole sul mondo del Barolo, che è qualcosa a sé, un territorio di segmenti separati, di tanti personaggi diversi, ognuno con una sua chiusura, di fazzoletti di vigne pettinate che ricoprono erti terreni di marne, calcari, argille. Un mondo struggente e difficile, come lo è in fondo il suo vino, con paesaggi che appaiono di una bellezza infinita e assieme dentro un pericolo incombente, per quanto vediamo scoscesi e a picco i loro pendii, che le viti sembrano salvare dal precipizio nel quale restano sospesi.

C’è qualcosa di severo e profondo in queste colline, che richiamano plasticamente il Barolo. Ricordo una frase di Angelo Gaja che mi diceva 25 anni fa, più o meno un “Per amare il Barolo, bisogna amare i tannini”. E questo mi faceva riflettere, perché i tannini (ovviamente di quanto siano poi fondamentali i composti polifenolici in un vino non parlo nemmeno, vista l’ovvietà del tutto) non sono però, sul piano estetico-gustativo, la cosa più buona di un vino, specie se aggressivi, crudi, prosciuganti. E il Nebbiolo come vitigno di questi ne ha. Ma io credo che sia un tema questo che riguarda anche (certo ognuno in maniera diversa e ciascuno a suo modo) tutti i vitigni a bacca rossa che si sono evoluti negli ultimi secoli in Italia, Sangiovese, Aglianico, Montepulciano, Sagrantino e così via. Ognuno cioè presenta una sua “sgarberia” estetica e poi spigoli, scontrosità, rispetto all’atletismo olimpico, bilanciato ed armonico dei, per esempio, vitigni bordolesi, con la loro distribuzione dei colori, la ricchezza tannica, ma anche di frutto, con le acidità che non sforano mai gli equilibri.

Eppure credo che questi, che potremmo definire limiti attuali dei nostri vitigni (la ricerca genetica, le selezioni massali fanno sì che le nuove vigne inizino a dare oggi una materia prima già nettamente superiore) offrano anche una dimensione di carattere, di microcosmo, che è la particolarità dei nostri vini. In un mondo dominato dalla presenza e dal gusto internazionale di uvaggi bordolesi coltivati in tutte le aree della terra vocate alla vite la proposta di un Barolo, di un Barbaresco, ma anche di un Brunello o di un Taurasi è quella di una sorprendente diversità, appunto la scoperta di un mondo a sé, fortemente chiaroscurato come il loro paesaggio, la sorpresa che esista nel mondo, in un piccolo punto microscopico un vino grande e particolare che può nascere ed avere quelle caratteristiche irripetibili solo lì. E di questi microscopici luoghi l’Italia è piena e deve essere pronta a giocarsi le sue carte.

Ma sono tutti vini comunque meno facili e aperti, meno comodi. Per apprezzarli, per capirli bisogna entrarci dentro, viverli, avere un approccio più meditato. In loro c’è come uno scarto, uno spostamento di canone. Entrare in questo mondo è però un’esperienza, un arricchimento del gusto e della conoscenza, perché si ha la sensazione di entrare nella storia, capire il passato di queste terre e la loro evoluzione.

Ecco, nelle aree elette del nostro paese, il lavoro dei migliori produttori e del piccolo gruppo e nucleo iniziale è stato quello di comprendere il carattere del loro vitigno, interpretarlo, dargli una dimensione e una crescita. In questo senso l’area del Barolo ha rappresentato un’avanguardia ed è sicuramente più avanti rispetto ad altri territori, perché qui la cultura e la conoscenza del cru, del sorì, del sito eletto, della selezione, della separazione poi dei vitigni è antica di almeno un secolo. Ma gli ultimi 20-30 anni hanno poi visto un’impennata, un colpo di reni prodigioso, che ha significato una presa di coscienza ed acquisizione di una profonda cultura del vino, fondamentale da parte di questi produttori. Ognuna delle etichette più importanti di Barolo (ma è discorso appunto da allargare anche agli altri vini) è cresciuta così enormemente in complessità, in profondità, in ampiezza rispetto al passato.

Il prossimo atto (e sta già accadendo) è nelle nuove vigne, in cui sono raccolte tutta la conoscenza e l’esperienza accumulata negli ultimi decenni, per arrivare ad un Barolo che non perda nulla del suo carattere, delle peculiarità che lo rendono unico e non imitabile altrove, ma arrivi ad avere anche più carne, più frutto e una superiore dimensione armonica.

Detto questo, che, ripeto, riguarda l’intero complesso del vino rosso italiano da vitigno autoctono, i due Barolo di Diego Conterno rappresentano una conferma e una novità. C’è in loro una notevole bellezza ed un grande nitore, una mano di vinificazione perfettamente bilanciata, precisa. Sono vini di estrema raffinatezza ed è stato un piacere assaggiarli. Ma soprattutto abbiamo apprezzato la grande diversità tra i due vini, che non sono poi così lontani come vigne. Ma questo è uno degli elementi che più affascinano nel Nebbiolo, la sua capacità cioè di dare un risultato ed un prodotto profondamente diverso, nelle forme, nel carattere, nell’espressione, ad una distanza in fondo davvero piccola.

La 2010 è comunque una grande annata e di conseguenza questi due Barolo sono giovanissimi, davvero al loro primo vagire. In questo senso ne può risentire anche il punteggio. Ma personalmente vedo questo mestiere come quello di un fotografo, un cronista del momento, non di un profeta. Ed è ovvio così anche dire che entrambi questi vini guadagneranno e cresceranno in un affinamento di altri anni in bottiglia (però “buono nel 2025” non me lo vedrete mai scrivere).

Quello che mi ha colpito è la fascinosità più femminea del Ginestra, la sua soavità, l’estrema, delicata raffinatezza ai profumi ancora in una fase floreale, di petali, rose e spezie in una loro aria trasognata, balsamica. Ed alla bocca poi la sensazione di un voluminosità serena, voluttuosa, serica e carnosa a ricoprire i tannini di polpe dolci, masticabilissime e ricchissime di sapori.

Le Coste di Monforte è invece un Barolo più rabbioso, con un naso più aggressivo e virile, rastremato da tannini anche duri, ma che appare in tutto il suo insieme anche più profondo, più ampio ed inchiostrato. La sua bocca così è più fitta e densa, più estrema, severa e striata, goudroneggiante e ricca. Ma è così Monforte, con le sue balze a picco, i suoi contrafforti.

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