Il Contrappunto

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Il sistema-Paese, il vino e l’outsider

Di Luciano Di Lello 

È qualcosa che probabilmente riguarda la storia del nostro paese da millenni, dal pater familias con i suoi clientes, al sistema feudale che si è polverizzato, replicandosi in infinite molecole davvero fino ad oggi. Il nostro è un sistema semicomunicante di ferrei centri di potere, immarcescibili e onnivori, grandi e minuscoli, dichiarati e nascosti, che si perpetuano, imbrigliando il nostro futuro da sempre. O ne entri a far parte o sei zero.

Parlo anche di piani nobili. Dell’arte, ad esempio. L’outsider anche geniale non ce la fa, se non appartiene a circoli, ad amicizie. Svevo ha lavorato per decenni come impiegato di banca e poi nel negozio di vernici del suocero. Il primo romanzo se l’è pubblicato da sé. Su La Coscienza di Zeno ha avuto qualche soddisfazione in fine vita, ma da riconoscimenti che venivano dalla Francia. Potrei aggiungere che, nel nulla della nostra narrativa odierna, le cose più autentiche le ho lette ne La Vita in Tempo di Pace di Francesco Pecoraro, altro outsider, una vita di lavoro presso il Comune di Roma.

Anche nel vino nulla cambia. Le forme di potere si creano e si moltiplicano come metastasi, pure in un ambiente vergine, visto che fino a 40 anni fa il Belpaese non produceva affatto come alta qualità. Per emergere, per vendere e avere vita, l’azienda deve partire con l’enologo giusto, il distributore, essere dentro il circuito che funziona. E così sopravvivenza, recensioni, magari premi in futuro. Con un protocollo di vigna e di cantina che si replica su tutte le nostre colline. Si faranno poi vini immortali? Ne dubito.

Perché dunque, si obietterà, scrivo di vino? Per gli outsider. Produttori e consumatori. Per quelli che vanno oltre, che derogano, lontani da conformismo e luoghi comuni. Che ritengo siano quel poco di bello e di creativo, talvolta di geniale rimasto nel nostro paese, così sfiancato dal risentimento e dall’odio (perché tutti questi variopinti centri di potere, pur lucrando tra loro, se conviene, nella realtà si detestano fino alla guerra).

Considero Andrea Franchetti l’outsider per eccellenza del nostro vino, appartato come i veri grandi autori, un passo dietro le sue opere, che parlano da sé. E aggiungo che, se non fosse stato benestante di suo, i benedetti rossi di Trinoro ce li saremmo sognati, per quanto sia stato ignorato agli esordi, ma non solo, dalla nostra stampa e, come dire, dall’establishment. Però, quando trovo sue bottiglie, dal Le Cupole (assaggiato 2 mesi fa un 2001 spettacolare) al Tenuta, sento di essere al centro di un universo vero. Del resto non c’è il caso nella qualità. Rischio sì, parecchio, nell’andare controcorrente, ricordando però che il risultato estremo è molto spesso nelle situazioni estreme. Piantare allora vigne tra i 500 ed i 600 metri, dove ogni vendemmia è un caso a sé e così saranno i vini, inconsueti e irripetibili in ciascun anno. Ed esercizio da fare sul terreno, anche con annate non felici. Per poi infilarne una serie progressiva impressionante dal 2006 fino ad oggi (appena sotto tono solo la 2008). E su questa esperienza di singole parcelle (che si vendemmiano assai tardi) veder crescere via via vini di tale identità da essere imbottigliati a parte. Nella 2009 nasce così il Merlot Palazzi, con la 2014 i Cabernet Franc diventano tre.

Propongo allora la vendemmia 2015, appena uscita. A partire da un Le Cupole travolgente, che alla cantabilità radiosa della giovinezza aggiunge le prime striature di goudron. Ed i tre Franc, certo crudi, che cresceranno per decenni, ma con un pentagramma di aromi e personalità diversissime (pure a distanza di poche decine di metri), che sono la bellezza incantata e irriproducibile dei veri nostri grandi vini. Provare allora la florealità voluttuosa del Magnacosta, la smagliante verticalità del Tenaglia e, su tutti, Camagi, la vigna più alta, eppure il vino più nero e profondo, più solenne e vasto di aromi, più tenebroso ed abbagliante.

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