La protezione memorabile dell’Aglianico di Taurasi

La protezione memorabile dell’Aglianico di Taurasi

di Luciano Di Lello

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Pochi mesi fa, nel mezzo di uno psicodramma da patria impazzita, mi è capitato, a caso (ma esiste mai il caso?), di trovarmi davanti ad uno splendido vino che sembrava raccontare tutt’altro del nostro paese. Sono così riuscito a salvarmi dalla deriva circostante, vivendo una completa scissione verso quanto osservavo e ascoltavo dagli schermi di una comune casa di città. Televisori, computer, telefonini, dirette facebook e tweet raccapriccianti.

Avevo fortunatamente davanti a me la stabilità e la bellezza di un rosso solido, sincero, diretto. Con dentro di sé la fermezza, lo studio, la serietà, il lavoro che ricuce in ogni anno i lasciti del più lontano passato di questo nostro territorio. Le note di rocce e pomice a raccontare di antiche colate laviche, di strati minerali che hanno soffocato piante e vite, ma lasciano emergere ora un frutto profondo con la sobria purezza di marasche e vaniglie, sottobosco e spezie, tabacco e fumo, petali e pellicce. Una summa di flora e boschi e una forza, un ingegno di fatica silenziosa, contadina, che non media, né strizza l’occhio, richiede anzi l’impegno a capirne il mondo di aromi, le vicende sue e nostre, che ci accomunano in una sempiterna verità di drammi e risalite.

Aggrappato alla dignità di questa storia non effimera, sono riuscito dunque a separarmi dalla straniante dinamica esterna di piroette, insulti e codici da teatranti che vagavano nell’etere. Moine senza pudore, accuse di tradimento che poi si negavano subito dopo, maschere surreali di capi senza conoscenza, grottesche o drammatiche, ma sicuramente mai serie, che alla fine sorridevano ammiccanti, promettendo melasse e retorica.

Mi sono protetto con memorabili bottiglie di Taurasi. Perché di questo vino sto parlando, superbo, integro, quasi fosse frutto di un altro paese e di un altro mondo. Da vigne anche centenarie nell’aerale di Castelfranci, poste intorno ai 500 metri di altitudine, piene di luce, dove il lungo fresco notturno corrobora dalle calure estive i suoi grappoli di Aglianico, vendemmiati mai prima di novembre.

E’ stata una sequenza partita dalla 2003 e giunta fino alla 2008, vendemmia questa che verrà posta in commercio in autunno, dieci anni dopo la raccolta dei grappoli. Ma è un tempo che ad un vino di tale profondità occorre tutto e che conferma come la verità sia spesso assai lenta e abbia bisogno di spazi, di inabissamenti e soste per farsi scoprire nella sua essenza di non semplice faciloneria e frasi fatte.

Questi vini possedevano un ordine forte di tannini e acidità, come un decumano scandito, che era appunto il lavoro dell’uomo che sottrae i prodotti della natura dal caos, dal selvatico, dal deperimento, dando loro una direzione, un’estetica e rendendoli un unicum in ogni diversa vendemmia. L’Aglianico appunto non è un vino semplice, né immediato, c’è dentro di lui un passo remoto, un retroterra profondo che va plasmato. La Riserva 2003 e la 2006 ne hanno rappresentato l’espressione più monumentale e traboccante. Sul suo ordito si distendevano sontuosi strati di ciliegie ed alcol, glicerine e spezie, catrami, fumo, essenze, dando anche la dimensione di un rosso che può esprimersi compiutamente solo a 20-30 anni di età.

La 2004 e la 2008 (che non erano nella versione Riserva, sempre più folta e grassa) apparivano come un elegante edificio di più lineare fierezza. Proprio perché più essenziali, erano assai crudi, minerali, severi, ma al tempo stesso lunghissimi, suggestivi, svettanti, carichi di echi ed infinite sfumature. La Riserva 2007 infine conteneva in sé entrambi questi aspetti e la loro intelaiatura di verità sequenziali, con una originalissima acutezza minerale di rocce bagnate su grassezza di frutto, sottobosco, goudron ed un’energia dalle infinite possibilità evolutive.

L’autore di questi memorabili vini, mai casuali, è Michele Perillo, con i suoi figli.

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