lucianodilello

Ho letto una frase che mi ha molto colpito giorni fa e che si può tranquillamente estendere al mondo del vino. Qualcosa che potremmo tradurre come “Il produttore è figlio del suo tempo, ma guai se ne è anche il discepolo o il suo favorito”.

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Italo Calvino scriveva che il grande romanzo sulla Resistenza era venuto fuori, quando nessuno più se l’aspettava, vent’anni dopo i fatti accaduti e con una storia del tutto controcorrente, assolutamente lontana dalla routine di retorica che l’aveva preceduta, per opera inoltre del più solitario degli scrittori del tempo.

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Solo per il paesaggio, dal filo azzurro del Lago di Caldaro a quell’abbacinante sollevarsi dei verdi ritmati delle vigne, fino al colore dei boschi e alle alture aguzze delle rocce, ci sarebbe da distribuire un Nobel perenne alla bellezza del luogo e alla infinita pace interiore che se ne ricava. Perché quello che vediamo, è lavoro dei suoi abitanti e l’ingegno meticoloso, plurisecolare, che si è consolidato, resistendo a tutto.

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È qualcosa che probabilmente riguarda la storia del nostro paese da millenni, dal pater familias con i suoi clientes, al sistema feudale che si è polverizzato, replicandosi in infinite molecole davvero fino ad oggi. Il nostro è un sistema semicomunicante di ferrei centri di potere, immarcescibili e onnivori, grandi e minuscoli, dichiarati e nascosti, che si perpetuano, imbrigliando il nostro futuro da sempre. O ne entri a far parte o sei zero.

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Ecco dunque, dopo il precedente articolo sul mio rapporto con i vini storici di Bolgheri, il risultato sui suoi migliori rossi emergenti.

E’ il frutto di assaggi iniziati alla fine del 2016, accurati, lenti, ripetuti, che hanno avuto anche il malessere di dover escludere quanto non mi convinceva del tutto.

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